martedì 5 dicembre 2006

Per discutere meglio

Questo spazio ospita proposte e idee per la discussione del 1 e 2 dicembre.
Tutti possono partecipare in prima persona o segnalare e inviare contributi.
Buona partecipazione.

Carlo Ghezzi
Riccardo Terzi

Osvaldo Cammarota
Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi
Massimo D'Alema
Leonardo Impegno
Antonio Lamberti
Libertà Eguale Livorno
Enrico Morando
Aldo Tortorella

domenica 3 dicembre 2006

Antonio Lieto

La nuova politica
Slogan ad effetto, luoghi comuni, qualche citazione in latino o in inglese per darsi qualche tono (oggi va molto l’inglese) e un mare di bugie. Non si può non restare esterrefatti di fronte all’appiattimento del discorso politico al quale, ahimé, assistiamo quotidianamente. Il motivo di tale appiattimento è da ricercarsi sostanzialmente in due fattori scatenanti:
1) La presenza di una classe dirigente decisamente scadente rispetto a quella, seppur famigerata, della Prima Repubblica.
2) La logica bipolare dei media in base alla quale una cosa o è bianca o è nera. O sei fascista o comunista. O c’è il regime o la libertà. Aut Aut. Non esistono sfumature, non ci sono vie di mezzo. C’è il Bene e il Male, l’ Eroe e il Nemico giurato. Ipersemplificazione dunque.
Un altro elemento che trova espressione diretta nella nuova politica, è il sondaggio. “I sondaggi dicono che..”, “Stando agli ultimi sondaggi…”. Quante volte ci è capitato di sentire espressioni di questo tipo?
Oggi i sondaggi sono utilizzati per qualsiasi cosa: per sapere se la notorietà di questo o quel personaggio è più alta presso una certa fascia di età. Per sapere se alla gente piace ciò che Tizio o Caio hanno intenzione di dire. Per sapere se si vinceranno o si perderanno le elezioni e via dicendo. I sondaggi sono utilizzati come forma di autorità superpartes in grado di avallare una tesi (la propria) e di screditarne un’altra (quella dell’avversario politico). I discorsi sono “preparati” (è finita l’epoca dei discorsi a braccio) sulla base di quello che dicono i sondaggi, sulla base di “quello che la gente vuole sentirsi dire” piuttosto che sulla base di ciò che veramente si pensa. Ovviamente chi cita i sondaggi cita solo quelli a proprio favore, quelli che avallano le proprie tesi. Per cui assistiamo increduli a dibattiti in cui ogni esponente politico porta i suoi sondaggi, le sue “verità”, screditando i sondaggi e le “verità” degli altri.
Ma non è finita qui. La nuova politica non ha prodotto cambiamenti esclusivamente linguistici.
A farla da padrona oggi è l’immagine. L’aspetto visuale. Tutto deve essere sopra le righe. Gradevole all’occhio.
Pochi, infatti, ascoltano veramente ciò che dicono i politici ma tutti li guardano. Allora tutto deve essere spettacolo, il look deve essere studiato fin nei minimi dettagli: le scarpe, la camicia, la cravatta (che deve andare bene sul completo e intonarsi con la scenografia dello studio televisivo), il corpo del leader.
Eh si, anche il corpo del leader è importante nel nuovo show politico (almeno da J.F.Kennedy in poi). E allora ecco che “entrano in scena”, è proprio il caso di dirlo, i bellocci e le bellocce della politica.
Negli Stati Uniti uno dei principali criteri con cui si selezionano i candidati per le primarie è la telegenicità. Si privilegiano, in sostanza, i candidati che bucano il video.
Questa è la nuova politica.
Una politica in cui gli slogan prendono il posto del ragionamento. Basata sugli scambi di accuse personali tra leaders o pseudo leaders a confronto.
Una politica in cui prevale l’elemento emotivo e demagogico rispetto a quello critico e raziocinante.
Per carità, la presenza delle emozioni è fondamentale in politica. Ma basarsi esclusivamente su di esse potrebbe diventare pericoloso per il concetto stesso di democrazia.
Una domanda: non siete già stanchi di questa nuova politica?

sabato 2 dicembre 2006

Massimo Santoro

Pensierini post-reunion.
1) abbiamo fatto una buona discussione
2) Mi sembra che il tema posto da Enzo sulla “credibilità” dei protagonisti sia stato poco approfondito. A me continua a sembrare un punto non risolto. Che poi è il tema delle classi dirigenti. Forse (lo dico ad Enzo) conviene su questo punto riprendere alcuni ragionamenti.
3) La costruzione del Partito Democratico, ad oggi, è affidato ad un “percorso politico” dove non si capisce bene, ancora una volta (e siamo al Pci-Pds-Ds-Pd in meno di 20 anni) “chiin baseachecosadecideche”. Sono d’accordo anch’io che le cose partono in un modo e possono finire in un altro. Basta concordare sul fatto che a volte possono persino peggiorare. Ed ancora, non vedo “luoghi” dove chi non ha (o non ha più) una tessera di partito possa in qualche maniera contribuire e necessariamente decidere. Qui si porrebbe il tema dell’azione in uno scenario politico dove la “privatizzazione” della sfera delle decisioni pubbliche provoca processi continui di alterazione del rapporto tra politici e cittadini.
4) Alcuni di noi hanno usato il concetto (spero non criptico) del “progetto come descrizione di un’assenza”. L’esigenza di fondare un nuovo partito dovrebbe muovere non tanto dalla preoccupazione di occupare uno spazio, ma piuttosto di de-scrivere scenari entro i quali i liberi individui possano riconoscersi in maniera attiva e partecipata. Ci sembra che più che descrivere un’assenza il progetto di partito democratico consolidi un’inadeguata presenza.
5) Noi napoletani, come si dice, avremmo bisogno di un supplemento di riflessione. Raccontarci dove siamo stati durante il “regno bassoliniano”, cosa abbiamo fatto e come, potrebbe, oltre a chiarire qualcosa tra di noi (desiderio che ha fatto più di un capolino durante la riunione) farci venire qualche buona idea da spendere dalle nostre parti.

Post scriptum semiserio per il mio amico Gianfranco:
Suvvia! Immaginarti in Francia (come dici) che voti per Nicolas Sarkozy sarebbe fare un torto alla tua non banale e talentuosa intelligenza. Non vorrei (parafrasando W. Allen) che anche tu cominciassi ad avere delle opinioni che non condividi.

venerdì 1 dicembre 2006

Ettore Combattente

Il tema: partito democratico centro e sinistra per il governo dell'Italia.
Ho riflettuto sul tema del Partito Democratico, con alterni umori. Ho avuto delle perplessità e ne ho ancora. Forse è il riflesso generazionale. Ma mi sono convinto che il partito democratico è un processo necessario.
Non è detto che sarà inevitabilmente un processo coronato da successo. Può fallire. Se fallisse, sarebbe un fatto grave, ma nella sostanza non avverrebbe niente di diverso di quello che sarebbe accaduto se non fosse proprio iniziato il processo o accadrebbe se fosse prorogato nel tempo. Il fallimento destrutturerebbe il sistema politico, aprirebbe una crisi di vaste proporzioni che coinvolgerebbe vari settori della vita sociale e delle istituzioni; e riguarderebbe i due poli, perché è indubbio che il processo di costituzione di due partiti potenzialmente maggioritari nel centro destra e nel centro sinistra condiziona reciprocamente i due poli. L’appello di Berlusconi a Montecatini, prima di crollare tra le braccia degli agenti della sicurezza, è, ancora una volta, una prova di intelligenza politica e di lungimiranza per la destra italiana. Questo processo, è indubbio, se andasse avanti, imporrebbe ai due poli la ricerca nel Parlamento di una maggioranza trasversale per la riforma in senso maggioritario della legge elettorale.
Il fallimento del PD avrebbe conseguenze gravi nel centro sinistra, per DS e Margherita, senza che nessuno altro partito se ne potrebbe giovare.
E’ illusorio pensare che il fallimento del PD possa rilanciare l’idea della unità della sinistra. Detto questo io insisto: il fallimento dal punto di vista degli effetti che avrebbe sul Paese e sul sistema politico non farebbe differenza rispetto ad una possibile rinuncia o a un ipotesi di prendere tempo.
Nella morta gora di una transizione infinita e incancrenita, lo sbocco sarebbe uno: una crisi, più o meno lenta o più o meno veloce, ma inevitabilmente profonda della società e delle istituzioni, in un mondo in cui i processi di cambiamento continuano inesorabilmente, nella sfera economica e in quella sociale.
Solo un cambiamento sostanziale del sistema politico avrà la forza di smuovere la acque stagnanti del sistema. Certo il PD non è una scelta obbligata e necessitata, altre potrebbero essere le scelte possibili di rinnovamento del sistema politico. In linea teorica. Ma allo stato non ne vedo altre. Forse in questo c’è una strutturale debolezza del processo di rinnovamento politico.
Nella crisi vedo riemergere il ventre molle della società italiana, che è di destra, unita nella difesa di tutti i privilegi, grandi e piccoli, pronta a rispondere positivamente agli appelli populistici e corporativi. E vedo risaltare ancora una volta una via tipicamente italiana, il modello del proporzionalismo consociativo, della frammentazione politica e del ricatto dei piccoli partiti, e infine del gioco da centro del classico moderatismo italiano e della logica dei due forni. In questo caso spazi di alternanza scomparirebbero e anche la sinistra radicale si adatterebbe al consociativismo e a un ruolo di lobby corporativa.
Se non è competitivo il sistema politico e sociale, neanche l’economia sarà tale. Il paese perderà la sfida della competitività. La competitività del sistema Paese. Giustamente, Carlo Grezzi ha sottolineato l’aspetto contraddittorio di un Italia, paese dell’area ricca del mondo, dotata di diffuse aree di dinamismo economico nel centro- nord e sparse attività di eccellenza, oltre che di un patrimonio unico di arte e di bellezze naturali, e corrosa da una prolungata crisi del sistema politico. Questa contraddizione è presente in tutta la storia d’Italia, sin dal Rinascimento, che vide in Italia sorgere le prime forme di economia moderna, mercantilismo, banca ecc, ma insieme ad una incapacità politica degli stati italiani di dare vita ad un processo di unificazione in uno stato nazionale come avveniva in altre parti d’Europa. L’Italia Unita con secoli di ritardo, resta un paese a coesione nazionale debole, con un accentuata propensione delle componenti sociali al particulare. E’ la competitività del sistema paese in quanto espressione di un entità nazionale unitaria che oggi è minacciata di venire meno; una situazione che può convivere nel contesto della comunità europea come nicchia economica prosperosa di affari per ceti della finanza, delle imprese e delle professioni, chiusi e non disponibili al rischio dell’innovazione e della mobilità sociale.
Il progetto del partito democratico deve corrispondere all’obiettivo di ridare ruolo al governo nazionale nel rilancio delle unità politica dell’Europa.
Ma la necessità del partito democratico deve accompagnarsi alla condizione che esso sia vincente. In questo sta la scelta.
Voglio insistere perché è necessario. Solo il riformismo può permettere all’Italia di fare il salto nella modernizzazione, di divenire pienamente paese europeo. Oggi si presenta l’occasione storica perché il riformismo italiano assuma responsabilità di governo, e apra una nuova fase per l’Italia, ponendo fine ad una condizione storica di minorità in Italia sia del riformismo liberale che di quello socialista.
L’Italia non ha visto né rivoluzione liberale né rivoluzione socialista.
La consapevolezza di questa necessità e di questa possibilità fa sì che i riformismi italiani possano unificarsi in un partito democratico.
Avverto nella discussione una certa resistenza ad usare la parola riformismo, si dice parola usata, abusata, priva oramai di significato. Anche rivoluzione è stata rimossa, perché usata e abusata( eccome!), per la sua radice giacobina. Ma è possibile definire in altro modo il cambiamento necessario? Una connotazione che non sia ideologica, imperniata sul concetto di ”domanda sociale”, ma una definizione che faccia riferimento ai problemi oggettivi del Paese, quelli determinati dai cambiamenti del mercato globale, della demografia ecc, i quali richiedono politiche di adeguamento delle istituzioni, delle leggi, degli strumenti di governo dell’economia e del mercato al fine di conquistare competitività e di dare le necessarie risposte ai bisogni delle persone, alle domande sociali e ad uno sviluppo sostenibile.
Io penso che la parola riformismo storicamente risponda a questa definizione.
Io credo che la riuscita del processo di formazione di un soggetto politico riformista, il Partito democratico, dipende dal come si procede. Qui ho delle perplessità. Un presupposto del processo dovrebbe essere l’apertura di un confronto tra le culture politiche del riformismo italiano in rapporto ai problemi reali del Paese. Mettere in rapporto l’ idea e la società. Che non c’è. Questo è il problema.
Confronto non significa la reciproca contaminazione che è una idea ecumenica, che non ha niente a che fare con un processo che deve avere un metodo scientifico.
Le scoperte della scienza non avvengono per contaminazione reciproca delle teorie ma per ribaltamento dei paradigmi scientifici, falsificando le vecchie teorie, come dice Popper. E nella scienza si procede per protocolli, che sono le regole della comunità scientifica.
Ci vuole un confronto e una critica delle vecchie culture politiche, in questo modo si salda il vecchio con il nuovo, non il prendere un pò dell’uno e un pò dell’altro. Capire perché i vecchi partiti tutti hanno fallito rispetto ai cambiamenti. Avere chiaro quali sono i problemi a cui rispondere, e che sia una risposta di sinistra lo auspico, ma, diversamente da quanto ha affermato nelle sua interessante intervista al “ Il Riformista” Giorgio Ruffolo, non penso, che debba essere pregiudiziale, anche l’idea di sinistra va ridefinita, ha bisogno di un nuovo paradigma.
Tutto questo allo stato non c’è. Vedo, invece, un confronto ristretto al ceto politico. Anche se bisogna riconoscere che, infine, la questione ha sollevato il problema. Negli appassionati la discussione è aperta. Con poche sedi democratiche e pochi luoghi comuni di confronto. e poche regole democratiche accettate da tutti. Sono i limiti democratici del processo. Ci sono, perciò, rischi di fallimento, di fare una mera somma di quello che c’è. E quello che c’è nel Mezzogiorno non è gradevole. Ma anche nel Nord. E’, per esempio, un tentativo maldestro, rispetto ad insufficienze infrastrutturali, di incardinare il processo al nord scimmiottando una questione settentrionale e impasticciandola con un federalismo a più velocità (diversa è la questione meridionale che è una questione nazionale e riguarda divari storici tra Nord e Sud).
Anche il sindacato, in dimensioni diverse, ha bisogno di aprire un discussione sulla crisi della rappresentanza.
Né penso che basti il giusto richiamo al ritorno di una capacità di mediazione politica senza che nello schieramento di centro-sinistra ci sia una forza centrale e trainante, garanzia di successo per l’insieme della coalizione, come detto da Riccardo Terzi.
Il rinzelarsi ad ergersi ognuno a difesa delle proprie origini culturali e identità, delle rispettive aggregazioni internazionali, a me pare strumentale; ha il senso di una ricerca di posizionamento e di visibilità, è un non volere confrontarsi con un contesto di crisi del mondo avanzato in cui sono messi in discussione a destra e a sinistra tutti i modelli sociali. Tanto è che a destra si cerca sostegno e rilancio associando conservazione e teologia. Mentre nella sinistra democratica si pone il problema di evitare il vecchio laicismo mangiapreti e il ricatto del confessionalismo dei moderati. Si tratta, invece, di affrontare, in uno sforzo comune di rinnovamento culturale, come ha indicato il Presidente Napolitano, e senza confusione, i problemi etici e morali della nuova società, che sono enormi.
Per l’Italia si tratta di un processo che non solo faccia compiere i passi che hanno compiuto a suo tempo le socialdemocrazie europee, in situazioni diverse, 60 anni fa, quando molti degli attuali esaltatori del socialismo se non professavano una loro la verità, cercavano una terza via.
Il socialismo europeo ha grandi problemi. L’internazionale socialista e il socialismo europeo sono grandi aggregazioni, punti di riferimento importanti per una forza progressista, ma hanno problemi, non hanno la ricetta risolutiva. E lo dico, avendo sempre simpatizzato per il socialismo e per i socialisti italiani; sin dal 1964, da modesto segretario di sezione, mi fu affibbiata nel PCI l’etichetta di “socialdemocratico”.
In Italia si tratta di unire liberta e giustizia, rivoluzione liberale e rivoluzione sociale ma in una affermazione nuova del ruolo della persona, dei meriti e di mobilità sociale. Processo di individualizzazione significa una persona non portatrice di diritti astratti ma di esigenze e bisogni specifici, avere pari opportunità e capacità (capability) per crescere, per affermarsi, nei diritti e nei doveri. Il primo presupposto della socialità, dopo i guasti del belusconismo, e non solo, è la cultura dei doveri. E riguarda tutti. Ceti sociali, classi, associazioni, partiti. E’ la sfida della legalità. Dare nuova vitalità alla società, aprire a tante risorse individuali possibilità di inclusione e di mobilità, risorse individuali mortificate dall’ingiustizia del darwinismo sociale, dal burocratismo egualitarista e dalla gestione politica delle opportunità. In questo sta la questione dei giovani. E della loro partecipazione.
In un mondo fortemente competitivo il riformismo deve offrire a tutte le persone opportunità e capacità di competere, sul lavoro produttivo, sul lavoro sociale, sulla scienza, sullo studio, sull’arte, sull’impresa, battendo il darwinismo sociale, l’accaparramento egoistico della ricchezza. In questo sta il valore dell’etica e delle finalità comuni dei laici e dei cattolici. Ma appunto è problema di una società educante. In politica bisogna lavorare per creare le condizioni della mobilità sociale. Compensare in modo uguale apporti diseguali è la più grande delle ingiustizie contemporanee, non più accettata dalle nuove generazioni. Affermare nello stesso tempo i valori dell’equità per chi non è in grado permanentemente o momentaneamente di competere. Il valore della solidarietà.
L’esperimento del riformismo italiano è un modo per uscire dalla crisi del modello europeo scansando il modello USA e rifuggendo dal modello Orientale. La prova che l’esperimento può funzionare dipenderà dalla capacità del centro sinistra di assicurare sviluppo e crescita senza le quali non c’è possibilità di inclusione né di redistribuzione.
Io condivido le conclusioni di Riccardo Terzi, richiamate nel contributo pubblicato sull’ultimo numero di “Argomenti umani”. Io penso che il processo costituente debba essere mantenuto aperto per allargare la partecipazione e superare quei limiti democratici e impedire i rischi di una fusione fredda. Gli appuntamenti fissati devono servire a mettere in campo il nuovo soggetto, ma la fabbrica di esso deve restare in piedi per un tempo non breve. Perché l’attrazione di regole condivise e il sapore autentico del cambiamento portino dentro il processo forze nuove a cui spetta costruire il futuro.