giovedì 12 luglio 2007

Per la riforma del sindacato

Sindacato e alternanza politica
di Ettore Combattente

Esiste una spinta oggettiva alla semplificazione della complessità. E’ un processo che coinvolge istituzioni sistema politico e rappresentanza sociale.
Nasce dalla crescente consapevolezza della necessità che il Paese esca da una lunga fase di transizione e che il sistema dell’alternanza politica pervenga ad una compiuta definizione.
E’ un processo necessario, indispensabile. E nel quale ogni soggetto deve fare la sua parte, nella consapevolezza che la parte di ognuno cambia.
Mi soffermo sul ruolo del sindacato nel sistema di alternanza nel governo del Paese.

lunedì 18 giugno 2007

I motivi di un rinnovato impegno

La VI Assemblea congressuale dell’ARS si svolge sulla base del documento “Per una sinistra unita, per un nuovo socialismo”, approvato insieme ad altre Associazioni. A quel testo aggiungiamo ai fini della discussione queste note sulla funzione dell’ARS nella nuova realtà politica.

sabato 16 giugno 2007

Associazione Due giugno

Introduzione di Carlo Ghezzi
Hotel Minerva, Roma 15 giugno 2007

Chi siamo e cosa vogliamo. Siamo donne e uomini che si sono misurati nel recente congresso dei DS e che hanno fatto vivere le loro posizioni collocandosi nelle mozioni sia di maggioranza che di minoranza. Alcuni di noi non sono invece iscritti a nessun partito.
Riteniamo che la democrazia italiana abbia bisogno di una forza politica nuova, capace di riunificate il campo di forze di progresso, oggi disperso, diviso e segmentato, che si candidi a riprogettare il paese e a guidarlo, ad essere la sinistra moderna del secolo che è da poco iniziato.
Con questa impostazione intendiamo cimentarci nella fase costituente per la formazione del Partito Democratico per dare alla democrazia italiana un nuovo soggetto politico popolare di sinistra, pluralista e radicato nel mondo dei lavori, dei saperi, della ricerca, dei ceti produttivi, in grado di svolgere la funzione sociale e di governo dei grandi partiti socialisti e socialdemocratici europei.

giovedì 14 giugno 2007

Intervista sul Partito Democratico

Marco Cacciotto è docente di Marketing Politico presso la Facoltà di Scienze Politiche delle Università di Firenze e di Milano. Consulente e analista politico dal 1994 (uno dei primi in Italia) e membro dell’EAPC (European Association of Political Consultant) è autore del libro “All’ombra del potere. Strategie per il consenso e consulenti politici” (casa editrice Le Lettere). Cura, su “Affari Italiani”, la rubrica ConSenso e scrive regolarmente di marketing e comunicazione politica su Il Sole24Ore.com.
Antonio Lieto lo ha intervistato sul presente e il futuro del Partito Democratico.

sabato 5 maggio 2007

Nasce Sinistra Democratica

Intervento introduttivo di Fabio Mussi

Una sinistra nuova, plurale, laica, autonoma, critica, larga, di governo, del lavoro, della cultura, dell’ambiente, delle libertà, della liberta femminile, una sinistra non minoritaria, ambientata in Europa nel socialismo.

martedì 5 dicembre 2006

Per discutere meglio

Questo spazio ospita proposte e idee per la discussione del 1 e 2 dicembre.
Tutti possono partecipare in prima persona o segnalare e inviare contributi.
Buona partecipazione.

Carlo Ghezzi
Riccardo Terzi

Osvaldo Cammarota
Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi
Massimo D'Alema
Leonardo Impegno
Antonio Lamberti
Libertà Eguale Livorno
Enrico Morando
Aldo Tortorella

domenica 3 dicembre 2006

Antonio Lieto

La nuova politica
Slogan ad effetto, luoghi comuni, qualche citazione in latino o in inglese per darsi qualche tono (oggi va molto l’inglese) e un mare di bugie. Non si può non restare esterrefatti di fronte all’appiattimento del discorso politico al quale, ahimé, assistiamo quotidianamente. Il motivo di tale appiattimento è da ricercarsi sostanzialmente in due fattori scatenanti:
1) La presenza di una classe dirigente decisamente scadente rispetto a quella, seppur famigerata, della Prima Repubblica.
2) La logica bipolare dei media in base alla quale una cosa o è bianca o è nera. O sei fascista o comunista. O c’è il regime o la libertà. Aut Aut. Non esistono sfumature, non ci sono vie di mezzo. C’è il Bene e il Male, l’ Eroe e il Nemico giurato. Ipersemplificazione dunque.
Un altro elemento che trova espressione diretta nella nuova politica, è il sondaggio. “I sondaggi dicono che..”, “Stando agli ultimi sondaggi…”. Quante volte ci è capitato di sentire espressioni di questo tipo?
Oggi i sondaggi sono utilizzati per qualsiasi cosa: per sapere se la notorietà di questo o quel personaggio è più alta presso una certa fascia di età. Per sapere se alla gente piace ciò che Tizio o Caio hanno intenzione di dire. Per sapere se si vinceranno o si perderanno le elezioni e via dicendo. I sondaggi sono utilizzati come forma di autorità superpartes in grado di avallare una tesi (la propria) e di screditarne un’altra (quella dell’avversario politico). I discorsi sono “preparati” (è finita l’epoca dei discorsi a braccio) sulla base di quello che dicono i sondaggi, sulla base di “quello che la gente vuole sentirsi dire” piuttosto che sulla base di ciò che veramente si pensa. Ovviamente chi cita i sondaggi cita solo quelli a proprio favore, quelli che avallano le proprie tesi. Per cui assistiamo increduli a dibattiti in cui ogni esponente politico porta i suoi sondaggi, le sue “verità”, screditando i sondaggi e le “verità” degli altri.
Ma non è finita qui. La nuova politica non ha prodotto cambiamenti esclusivamente linguistici.
A farla da padrona oggi è l’immagine. L’aspetto visuale. Tutto deve essere sopra le righe. Gradevole all’occhio.
Pochi, infatti, ascoltano veramente ciò che dicono i politici ma tutti li guardano. Allora tutto deve essere spettacolo, il look deve essere studiato fin nei minimi dettagli: le scarpe, la camicia, la cravatta (che deve andare bene sul completo e intonarsi con la scenografia dello studio televisivo), il corpo del leader.
Eh si, anche il corpo del leader è importante nel nuovo show politico (almeno da J.F.Kennedy in poi). E allora ecco che “entrano in scena”, è proprio il caso di dirlo, i bellocci e le bellocce della politica.
Negli Stati Uniti uno dei principali criteri con cui si selezionano i candidati per le primarie è la telegenicità. Si privilegiano, in sostanza, i candidati che bucano il video.
Questa è la nuova politica.
Una politica in cui gli slogan prendono il posto del ragionamento. Basata sugli scambi di accuse personali tra leaders o pseudo leaders a confronto.
Una politica in cui prevale l’elemento emotivo e demagogico rispetto a quello critico e raziocinante.
Per carità, la presenza delle emozioni è fondamentale in politica. Ma basarsi esclusivamente su di esse potrebbe diventare pericoloso per il concetto stesso di democrazia.
Una domanda: non siete già stanchi di questa nuova politica?

sabato 2 dicembre 2006

Massimo Santoro

Pensierini post-reunion.
1) abbiamo fatto una buona discussione
2) Mi sembra che il tema posto da Enzo sulla “credibilità” dei protagonisti sia stato poco approfondito. A me continua a sembrare un punto non risolto. Che poi è il tema delle classi dirigenti. Forse (lo dico ad Enzo) conviene su questo punto riprendere alcuni ragionamenti.
3) La costruzione del Partito Democratico, ad oggi, è affidato ad un “percorso politico” dove non si capisce bene, ancora una volta (e siamo al Pci-Pds-Ds-Pd in meno di 20 anni) “chiin baseachecosadecideche”. Sono d’accordo anch’io che le cose partono in un modo e possono finire in un altro. Basta concordare sul fatto che a volte possono persino peggiorare. Ed ancora, non vedo “luoghi” dove chi non ha (o non ha più) una tessera di partito possa in qualche maniera contribuire e necessariamente decidere. Qui si porrebbe il tema dell’azione in uno scenario politico dove la “privatizzazione” della sfera delle decisioni pubbliche provoca processi continui di alterazione del rapporto tra politici e cittadini.
4) Alcuni di noi hanno usato il concetto (spero non criptico) del “progetto come descrizione di un’assenza”. L’esigenza di fondare un nuovo partito dovrebbe muovere non tanto dalla preoccupazione di occupare uno spazio, ma piuttosto di de-scrivere scenari entro i quali i liberi individui possano riconoscersi in maniera attiva e partecipata. Ci sembra che più che descrivere un’assenza il progetto di partito democratico consolidi un’inadeguata presenza.
5) Noi napoletani, come si dice, avremmo bisogno di un supplemento di riflessione. Raccontarci dove siamo stati durante il “regno bassoliniano”, cosa abbiamo fatto e come, potrebbe, oltre a chiarire qualcosa tra di noi (desiderio che ha fatto più di un capolino durante la riunione) farci venire qualche buona idea da spendere dalle nostre parti.

Post scriptum semiserio per il mio amico Gianfranco:
Suvvia! Immaginarti in Francia (come dici) che voti per Nicolas Sarkozy sarebbe fare un torto alla tua non banale e talentuosa intelligenza. Non vorrei (parafrasando W. Allen) che anche tu cominciassi ad avere delle opinioni che non condividi.

venerdì 1 dicembre 2006

Ettore Combattente

Il tema: partito democratico centro e sinistra per il governo dell'Italia.
Ho riflettuto sul tema del Partito Democratico, con alterni umori. Ho avuto delle perplessità e ne ho ancora. Forse è il riflesso generazionale. Ma mi sono convinto che il partito democratico è un processo necessario.
Non è detto che sarà inevitabilmente un processo coronato da successo. Può fallire. Se fallisse, sarebbe un fatto grave, ma nella sostanza non avverrebbe niente di diverso di quello che sarebbe accaduto se non fosse proprio iniziato il processo o accadrebbe se fosse prorogato nel tempo. Il fallimento destrutturerebbe il sistema politico, aprirebbe una crisi di vaste proporzioni che coinvolgerebbe vari settori della vita sociale e delle istituzioni; e riguarderebbe i due poli, perché è indubbio che il processo di costituzione di due partiti potenzialmente maggioritari nel centro destra e nel centro sinistra condiziona reciprocamente i due poli. L’appello di Berlusconi a Montecatini, prima di crollare tra le braccia degli agenti della sicurezza, è, ancora una volta, una prova di intelligenza politica e di lungimiranza per la destra italiana. Questo processo, è indubbio, se andasse avanti, imporrebbe ai due poli la ricerca nel Parlamento di una maggioranza trasversale per la riforma in senso maggioritario della legge elettorale.
Il fallimento del PD avrebbe conseguenze gravi nel centro sinistra, per DS e Margherita, senza che nessuno altro partito se ne potrebbe giovare.
E’ illusorio pensare che il fallimento del PD possa rilanciare l’idea della unità della sinistra. Detto questo io insisto: il fallimento dal punto di vista degli effetti che avrebbe sul Paese e sul sistema politico non farebbe differenza rispetto ad una possibile rinuncia o a un ipotesi di prendere tempo.
Nella morta gora di una transizione infinita e incancrenita, lo sbocco sarebbe uno: una crisi, più o meno lenta o più o meno veloce, ma inevitabilmente profonda della società e delle istituzioni, in un mondo in cui i processi di cambiamento continuano inesorabilmente, nella sfera economica e in quella sociale.
Solo un cambiamento sostanziale del sistema politico avrà la forza di smuovere la acque stagnanti del sistema. Certo il PD non è una scelta obbligata e necessitata, altre potrebbero essere le scelte possibili di rinnovamento del sistema politico. In linea teorica. Ma allo stato non ne vedo altre. Forse in questo c’è una strutturale debolezza del processo di rinnovamento politico.
Nella crisi vedo riemergere il ventre molle della società italiana, che è di destra, unita nella difesa di tutti i privilegi, grandi e piccoli, pronta a rispondere positivamente agli appelli populistici e corporativi. E vedo risaltare ancora una volta una via tipicamente italiana, il modello del proporzionalismo consociativo, della frammentazione politica e del ricatto dei piccoli partiti, e infine del gioco da centro del classico moderatismo italiano e della logica dei due forni. In questo caso spazi di alternanza scomparirebbero e anche la sinistra radicale si adatterebbe al consociativismo e a un ruolo di lobby corporativa.
Se non è competitivo il sistema politico e sociale, neanche l’economia sarà tale. Il paese perderà la sfida della competitività. La competitività del sistema Paese. Giustamente, Carlo Grezzi ha sottolineato l’aspetto contraddittorio di un Italia, paese dell’area ricca del mondo, dotata di diffuse aree di dinamismo economico nel centro- nord e sparse attività di eccellenza, oltre che di un patrimonio unico di arte e di bellezze naturali, e corrosa da una prolungata crisi del sistema politico. Questa contraddizione è presente in tutta la storia d’Italia, sin dal Rinascimento, che vide in Italia sorgere le prime forme di economia moderna, mercantilismo, banca ecc, ma insieme ad una incapacità politica degli stati italiani di dare vita ad un processo di unificazione in uno stato nazionale come avveniva in altre parti d’Europa. L’Italia Unita con secoli di ritardo, resta un paese a coesione nazionale debole, con un accentuata propensione delle componenti sociali al particulare. E’ la competitività del sistema paese in quanto espressione di un entità nazionale unitaria che oggi è minacciata di venire meno; una situazione che può convivere nel contesto della comunità europea come nicchia economica prosperosa di affari per ceti della finanza, delle imprese e delle professioni, chiusi e non disponibili al rischio dell’innovazione e della mobilità sociale.
Il progetto del partito democratico deve corrispondere all’obiettivo di ridare ruolo al governo nazionale nel rilancio delle unità politica dell’Europa.
Ma la necessità del partito democratico deve accompagnarsi alla condizione che esso sia vincente. In questo sta la scelta.
Voglio insistere perché è necessario. Solo il riformismo può permettere all’Italia di fare il salto nella modernizzazione, di divenire pienamente paese europeo. Oggi si presenta l’occasione storica perché il riformismo italiano assuma responsabilità di governo, e apra una nuova fase per l’Italia, ponendo fine ad una condizione storica di minorità in Italia sia del riformismo liberale che di quello socialista.
L’Italia non ha visto né rivoluzione liberale né rivoluzione socialista.
La consapevolezza di questa necessità e di questa possibilità fa sì che i riformismi italiani possano unificarsi in un partito democratico.
Avverto nella discussione una certa resistenza ad usare la parola riformismo, si dice parola usata, abusata, priva oramai di significato. Anche rivoluzione è stata rimossa, perché usata e abusata( eccome!), per la sua radice giacobina. Ma è possibile definire in altro modo il cambiamento necessario? Una connotazione che non sia ideologica, imperniata sul concetto di ”domanda sociale”, ma una definizione che faccia riferimento ai problemi oggettivi del Paese, quelli determinati dai cambiamenti del mercato globale, della demografia ecc, i quali richiedono politiche di adeguamento delle istituzioni, delle leggi, degli strumenti di governo dell’economia e del mercato al fine di conquistare competitività e di dare le necessarie risposte ai bisogni delle persone, alle domande sociali e ad uno sviluppo sostenibile.
Io penso che la parola riformismo storicamente risponda a questa definizione.
Io credo che la riuscita del processo di formazione di un soggetto politico riformista, il Partito democratico, dipende dal come si procede. Qui ho delle perplessità. Un presupposto del processo dovrebbe essere l’apertura di un confronto tra le culture politiche del riformismo italiano in rapporto ai problemi reali del Paese. Mettere in rapporto l’ idea e la società. Che non c’è. Questo è il problema.
Confronto non significa la reciproca contaminazione che è una idea ecumenica, che non ha niente a che fare con un processo che deve avere un metodo scientifico.
Le scoperte della scienza non avvengono per contaminazione reciproca delle teorie ma per ribaltamento dei paradigmi scientifici, falsificando le vecchie teorie, come dice Popper. E nella scienza si procede per protocolli, che sono le regole della comunità scientifica.
Ci vuole un confronto e una critica delle vecchie culture politiche, in questo modo si salda il vecchio con il nuovo, non il prendere un pò dell’uno e un pò dell’altro. Capire perché i vecchi partiti tutti hanno fallito rispetto ai cambiamenti. Avere chiaro quali sono i problemi a cui rispondere, e che sia una risposta di sinistra lo auspico, ma, diversamente da quanto ha affermato nelle sua interessante intervista al “ Il Riformista” Giorgio Ruffolo, non penso, che debba essere pregiudiziale, anche l’idea di sinistra va ridefinita, ha bisogno di un nuovo paradigma.
Tutto questo allo stato non c’è. Vedo, invece, un confronto ristretto al ceto politico. Anche se bisogna riconoscere che, infine, la questione ha sollevato il problema. Negli appassionati la discussione è aperta. Con poche sedi democratiche e pochi luoghi comuni di confronto. e poche regole democratiche accettate da tutti. Sono i limiti democratici del processo. Ci sono, perciò, rischi di fallimento, di fare una mera somma di quello che c’è. E quello che c’è nel Mezzogiorno non è gradevole. Ma anche nel Nord. E’, per esempio, un tentativo maldestro, rispetto ad insufficienze infrastrutturali, di incardinare il processo al nord scimmiottando una questione settentrionale e impasticciandola con un federalismo a più velocità (diversa è la questione meridionale che è una questione nazionale e riguarda divari storici tra Nord e Sud).
Anche il sindacato, in dimensioni diverse, ha bisogno di aprire un discussione sulla crisi della rappresentanza.
Né penso che basti il giusto richiamo al ritorno di una capacità di mediazione politica senza che nello schieramento di centro-sinistra ci sia una forza centrale e trainante, garanzia di successo per l’insieme della coalizione, come detto da Riccardo Terzi.
Il rinzelarsi ad ergersi ognuno a difesa delle proprie origini culturali e identità, delle rispettive aggregazioni internazionali, a me pare strumentale; ha il senso di una ricerca di posizionamento e di visibilità, è un non volere confrontarsi con un contesto di crisi del mondo avanzato in cui sono messi in discussione a destra e a sinistra tutti i modelli sociali. Tanto è che a destra si cerca sostegno e rilancio associando conservazione e teologia. Mentre nella sinistra democratica si pone il problema di evitare il vecchio laicismo mangiapreti e il ricatto del confessionalismo dei moderati. Si tratta, invece, di affrontare, in uno sforzo comune di rinnovamento culturale, come ha indicato il Presidente Napolitano, e senza confusione, i problemi etici e morali della nuova società, che sono enormi.
Per l’Italia si tratta di un processo che non solo faccia compiere i passi che hanno compiuto a suo tempo le socialdemocrazie europee, in situazioni diverse, 60 anni fa, quando molti degli attuali esaltatori del socialismo se non professavano una loro la verità, cercavano una terza via.
Il socialismo europeo ha grandi problemi. L’internazionale socialista e il socialismo europeo sono grandi aggregazioni, punti di riferimento importanti per una forza progressista, ma hanno problemi, non hanno la ricetta risolutiva. E lo dico, avendo sempre simpatizzato per il socialismo e per i socialisti italiani; sin dal 1964, da modesto segretario di sezione, mi fu affibbiata nel PCI l’etichetta di “socialdemocratico”.
In Italia si tratta di unire liberta e giustizia, rivoluzione liberale e rivoluzione sociale ma in una affermazione nuova del ruolo della persona, dei meriti e di mobilità sociale. Processo di individualizzazione significa una persona non portatrice di diritti astratti ma di esigenze e bisogni specifici, avere pari opportunità e capacità (capability) per crescere, per affermarsi, nei diritti e nei doveri. Il primo presupposto della socialità, dopo i guasti del belusconismo, e non solo, è la cultura dei doveri. E riguarda tutti. Ceti sociali, classi, associazioni, partiti. E’ la sfida della legalità. Dare nuova vitalità alla società, aprire a tante risorse individuali possibilità di inclusione e di mobilità, risorse individuali mortificate dall’ingiustizia del darwinismo sociale, dal burocratismo egualitarista e dalla gestione politica delle opportunità. In questo sta la questione dei giovani. E della loro partecipazione.
In un mondo fortemente competitivo il riformismo deve offrire a tutte le persone opportunità e capacità di competere, sul lavoro produttivo, sul lavoro sociale, sulla scienza, sullo studio, sull’arte, sull’impresa, battendo il darwinismo sociale, l’accaparramento egoistico della ricchezza. In questo sta il valore dell’etica e delle finalità comuni dei laici e dei cattolici. Ma appunto è problema di una società educante. In politica bisogna lavorare per creare le condizioni della mobilità sociale. Compensare in modo uguale apporti diseguali è la più grande delle ingiustizie contemporanee, non più accettata dalle nuove generazioni. Affermare nello stesso tempo i valori dell’equità per chi non è in grado permanentemente o momentaneamente di competere. Il valore della solidarietà.
L’esperimento del riformismo italiano è un modo per uscire dalla crisi del modello europeo scansando il modello USA e rifuggendo dal modello Orientale. La prova che l’esperimento può funzionare dipenderà dalla capacità del centro sinistra di assicurare sviluppo e crescita senza le quali non c’è possibilità di inclusione né di redistribuzione.
Io condivido le conclusioni di Riccardo Terzi, richiamate nel contributo pubblicato sull’ultimo numero di “Argomenti umani”. Io penso che il processo costituente debba essere mantenuto aperto per allargare la partecipazione e superare quei limiti democratici e impedire i rischi di una fusione fredda. Gli appuntamenti fissati devono servire a mettere in campo il nuovo soggetto, ma la fabbrica di esso deve restare in piedi per un tempo non breve. Perché l’attrazione di regole condivise e il sapore autentico del cambiamento portino dentro il processo forze nuove a cui spetta costruire il futuro.

domenica 12 novembre 2006

Riccardo Terzi

Per impostare utilmente la discussione intorno alla proposta del “partito democratico” (questa è ormai la sua definizione ufficiale dopo il seminario di Orvieto) occorre in via preliminare analizzare lo stato attuale della politica e i processi che l’hanno segnata nel corso di questi ultimi anni.

Occorre cioè capire come questa proposta si innesta nella realtà e quali nuove dinamiche ne possono scaturire. Senza questo lavoro analitico tutta la discussione sui modelli politici e sulle identità di partito resterebbe campata per aria.

La mia premessa è che lo stato attuale della politica è uno stato di crisi e che questa crisi, che si va trascinando da più di un decennio, rende incerto e problematico tutto il funzionamento della nostra vita democratica.

In questa crisi possiamo cogliere due aspetti. Il primo è che i partiti politici attuali, sia quelli sopravvissuti al grande crollo della prima repubblica, sia quelli di più recente formazione, sono strutture a debole identità e con scarsa circolazione democratica. Una volta dissipato il patrimonio delle ideologie politiche tradizionali, su cui si fondava la passione politica militante, con le sue generosità e con le sue intolleranze, lo spazio politico è occupato da agenzie elettorali e da strutture di tipo oligarchico, la cui vitalità si esaurisce nelle prestazioni televisive del leader di turno.

A ciò si accompagna anche una frammentazione del sistema politico, perché mentre non c’è grande abbondanza di teorie politiche è illimitata l’ambizione personale dei leader potenziali, e con l’invenzione del partito “personale” la proliferazione dei partiti può divenire un processo infinito. Ma nel mercato politico non succede che l’ampliamento dell’offerta aumenti la soddisfazione dei cittadini.

Succede il contrario, che si apre una frattura nel rapporto tra politica e società.

Il secondo aspetto riguarda la forma che ha assunto il bipolarismo. Si stenta a vedere quella evoluzione verso una competizione più limpida e più controllabile che del bipolarismo dovrebbe essere la virtuosa conseguenza. Ciò che è sotto i nostri occhi è solo una rissa permanente e violenta, che impedisce qualsiasi confronto delle idee e dei programmi, è la versione “fondamentalista” del bipolarismo, e quindi fanatica e faziosa, per cui qualsiasi “mediazione” è bollata come un tradimento. Ma senza mediazione la politica regredisce allo stato primitivo della guerra per bande. E accade spesso che la violenza dello scontro non è dovuta ad un eccesso di lontananza, ma piuttosto ad un eccesso di vicinanza, perché si tratta solo di decidere “chi” occupa una determinata posizione, chi ha il potere di fare ciò che comunque è necessario fare.

È solo un problema di immaturità, di transizione non ancora completata? Stiamo cioè camminando ancora troppo lentamente ma nella direzione giusta, o, visti i risultati, appare a questo punto ragionevole dubitare della direzione di marcia? E quali sono i passaggi possibili e utili per impostare su basi nuove il discorso di una moderna democrazia bipolare?

Se questo è il quadro, un po’ crudo ma realistico, la posizione più incomprensibile è il timore del nuovo, come se ci fossero forti identità politiche da salvaguardare. La sinistra si trova già oggi in una condizione di grave indeterminatezza, essendo crollate le basi teoriche e sociali su cui essa di reggeva. Imboccare una via innovativa è quindi una necessità non eludibile. Non è quindi in nessun modo accettabile un discorso di prudente conservazione (di che cosa?), e il pericolo maggiore è piuttosto quello che deriva dalla forza di inerzia degli apparati e dall’autoinganno di un ceto politico che pensa di essere il depositario di una identità, mentre invece è solo il risultato fortuito e provvisorio di una crisi non risolta.

Naturalmente, l’innovazione politica può percorrere diverse strade. Non c’è nulla di inevitabile, di necessitato. Trovo quindi del tutto sbagliata la tesi che la scelta del “partito democratico” sia obbligata, senza alternative. Non è il frutto di uno stato di necessità, ma di una scelta, di una volontà, anche per molti aspetti di un azzardo, di una difficile scommessa sul futuro. Nello stesso tempo, stanno prendendo forma anche altri progetti, come quello di Rifondazione Comunista, che cerca di tenere insieme radicalità e governo, antagonismo sociale e assunzione di responsabilità nelle istituzioni, o come il tentativo della Rosa nel pugno, che appare però già in forte sofferenza, di rimettere al centro il tema della laicità dello Stato.

Sono vie diverse e non necessariamente in conflitto fra di loro. È chiaro però che c’è bisogno, nello schieramento di centro-sinistra, di una forza centrale e trainante, la quale può essere una garanzia di successo per l’insieme della coalizione. I dirigenti di Rifondazione non saranno disposti ad ammetterlo, ma i più accorti sanno che il loro progetto sta in piedi solo in quanto trova un interlocutore, e che quindi c’è di fatto una reciproca convergenza e complicità tra la nuova sinistra radicale e il partito democratico. Ci sarà qualche scontro di frontiera, per segnare i rispettivi rapporti di forza, ci sarà un’area contesa (in particolare l’attuale sinistra DS), ma è nella logica delle cose che si trovi infine un equilibrio su cui costruire una collaborazione per il futuro. Ciò intorno a cui oggi si sta discutendo non ha i caratteri distruttivi della scissione, ma quelli più razionali di una riorganizzazione del campo della sinistra.

Ma quali sono le “domande” alle quali deve rispondere un nuovo progetto politico? Questo è un interrogativo cruciale, perchè in politica non si costruisce nulla di vitale se non c’è un solido retroterra su cui poter lavorare, se non c’è quindi una corrispondenza reale fra ciò che si progetta e ciò che è potenzialmente maturo nella vita sociale e nella coscienza delle persone. Insomma, il partito democratico interpreta qualcosa di reale, o è solo una costruzione artificiosa tutta interna alle élites politiche?

Vediamo allora di leggere le domande, talora anche inespresse, che circolano nel corpo sociale, e vediamo in parallelo come può prendere senso il progetto politico e su quali leve deve agire per assumere la necessaria forza espansiva. Questo lavoro di rimando dal sociale al politico è essenziale. Non si tratta qui della vecchia e stucchevole disputa tra società civile e società politica, ma di vedere le necessarie connessioni tra i due piani. Se i due piani restano slegati, ciò significherebbe semplicemente che il progetto politico non ha le gambe per camminare. E in questo caso sarebbe solo un’inutile perdita di tempo.

Ora, di tutto questo non si è abbastanza discusso. Anche a Orvieto, in una discussione complessivamente seria e impegnata, la società reale è rimasta troppo sullo sfondo. E quindi il rischio di una operazione tutta ed esclusivamente “politica”, che non va oltre gli steccati della classe dirigente, non è ancora sufficientemente sventato.

Una prima domanda, quella in apparenza più semplice ed elementare, è la domanda di unità. Di fronte alla frammentazione partitica e alla ripetuta esibizione dei particolarismi e dei personalismi, si chiede alla politica di offrire un progetto unitario, di costruire uno spazio comune, nel quale contano i valori di fondo e contano meno le piccole competizioni per la spartizione del potere. È una domanda semplice, ma non banale. E per raccogliere questa domanda, il partito democratico deve realizzare al suo interno una effettiva fusione delle culture politiche che concorrono alla sua formazione. Se esso dovesse essere o apparire solo una precaria convivenza di forze che restano tra loro divise e competitive, tenute insieme solo da una diplomazia di vertice, l’obiettivo politico sarebbe mancato.

Per questo, l’idea di una “federazione” sarebbe la soluzione peggiore, perché non farebbe che riprodurre in modo irrigidito le attuali identità di partito, senza farle evolvere e senza rimetterle in discussione in una ricerca comune che sia davvero aperta e non cristallizzata. Come regolare il pluralismo interno del nuovo partito è un problema complicato. Il pluralismo, è evidente, è nella natura stessa di un partito che mette insieme diverse storie e culture politiche. Ma esso deve essere il più possibile fluido, flessibile, per evitare che la frammentazione si riproduca sotto la forma di correnti rigidamente organizzate. La scelta per il partito democratico ha un senso solo se non si tratta di una coabitazione forzata e se si pensa che essa possa produrre qualcosa di nuovo, una nuova identità e un nuovo senso di appartenenza collettiva.

In secondo luogo, c’è una domanda di partecipazione, c’è il rifiuto di una politica oligarchica e verticistica, che lascia al singolo cittadino, e anche al militante di base, solo la possibilità di adeguarsi a decisioni che sono prese altrove. I giochi sono sempre già fatti, noi possiamo solo assistere allo spettacolo, possiamo simpatizzare, i più generosi possono anche applaudire, ma lo spazio politico non è più uno spazio che ci include, ma è riservato agli addetti ai lavori.

Questa è la sfida più difficile: è possibile rovesciare questa tendenza, è possibile ricostruire uno spazio democratico che sia davvero aperto alla partecipazione di tutti? Quando, in via eccezionale, è stato offerto uno strumento di partecipazione , abbiamo visto una straordinaria disponibilità, come è accaduto in occasione delle primarie. Ma è possibile che l’eccezione diventi la regola? Qui tocchiamo un tema che è essenziale per definire la natura del nuovo partito. In che senso esso si definisce “democratico” ?

Ci possono essere due significati: democratico perché il suo orizzonte è solo quello istituzionale, della governabilità dentro un assetto di potere stabilizzato, o viceversa perché si vuole affrontare il problema della crisi della democrazia e si vuole puntare sulla risorsa della partecipazione e della responsabilizzazione attiva dei cittadini, incidendo quindi sulle strutture del potere. Il partito democratico può avere un futuro solo in quanto si configura come il partito della democratizzazione, come una rottura, quindi, rispetto al modello autoritario–plebiscitario che in questi anni ha occupato la scena politica, e non solo per responsabilità della destra populista.

Sotto questo profilo, la relazione tenuta ad Orvieto da Salvatore Vassallo offre alcuni spunti interessanti, perché essa cerca di disegnare un partito anti-oligarchico, nel quale “l’adesione implichi un diritto a partecipare in maniera diretta alle principali scelte riguardanti l’indirizzo politico e la selezione dei dirigenti”.

In sostanza, è molto importante che la qualificazione di “democratico” non sia l’omaggio retorico ad un valore dato per scontato e per acquisito, ma sia la presa d’atto di una crisi che si è aperta nei nostri sistemi politici e, quindi, la ricerca di nuove soluzioni. Il nuovo partito deve sentire con inquietudine questo tema della democrazia, come una questione non risolta, non archiviata , non confinata nelle celebrazioni del 25 aprile.

D’altra parte, l’ultimo referendum costituzionale ha riattualizzato tutto il problema e ha fatto venire alla luce una sorprendente capacità di reazione ai progetti neo-autoritari della destra.

È quindi possibile scommettere sulle risorse della partecipazione, e cercare di incanalare nel nuovo progetto questa diffusa domanda democratica , dando ad essa voce politica ed inquadrandola in una nuova forma organizzativa. Qui c’è un nodo che è stato ampiamente discusso a Orvieto : come si governa questo processo? Dall’alto o dal basso? È un patto politico tra i gruppi dirigenti, o è un movimento nuovo che supera le strutture esistenti ?

Mi pare evidente che queste diverse istanze devono essere tra loro mediate. Se c’è un eccesso di governo dall’alto, il processo si blocca. Se c’è solo un movimentismo non ordinato, si resta fermi ad uno stadio di informalità velleitaria, e non si costruisce un partito. In questo difficile equilibrio stanno le insidie maggiori, perché si rischia in ogni momento di sbandare nell’una o nell’altra direzione.

A Orvieto c’è stato un incontro degli stati maggiori, e c’è stata, in modo chiaro, una scelta politica motivata e determinata. Il partito democratico ha cominciato a prendere forma, e non è più solo un’ipotesi o una suggestione. Ma ora bisogna attivare un più vasto movimento di opinione e mettere in moto un processo democratico più largo. È urgente mettere tra loro in comunicazione i due processi, in modo che la distanza, la separazione di “alto” e “basso”, di politica e società, sia progressivamente superata.

Infine, c’è una domanda di socialità, di coesione, in opposizione ai processi in atto di disgregazione individualistica, di precarizzazione del lavoro e della vita. Per rappresentare questa domanda, possiamo usare il concetto di “solidarietà”, che è comune a tutte le diverse tradizioni del riformismo sociale e alle molteplici esperienze associative, cooperative, sindacali. In che rapporto sta il nuovo progetto politico con questo mondo delle forze sociali organizzate? E quale modello sociale esso intende promuovere?

Questo è il tema finora meno discusso e meno elaborato. Negli ultimi anni si è via via sempre più rarefatto e sfilacciato il rapporto della politica con le rappresentanze sociali, col risultato di incrementare il corporativismo degli interessi da un lato, e l’autoreferenzialità della politica dall’altro. Si deve ora ricostruire una relazione, una comunicazione tra i due piani. E un nuovo partito, che ha l’ambizione di essere una grande forza popolare e di massa, deve chiarire il suo profilo sociale, i suoi referenti, il suo modo di stare nella società e nei suoi conflitti.

Come ha lucidamente chiarito Giuliano Amato nel suo intervento ad Orvieto, il tema si presenta oggi in termini molto diversi rispetto al passato, perché non c’è un “soggetto sociale” coeso, con un proprio autonomo livello di coscienza, non c’è una soggettività di classe che si costituisce per se stessa e che anticipa la politica, ma c’è una dispersione, una frammentazione, che la politica deve cercare di riunificare. Ma, se questo è vero, ciò significa che la politica si deve assumere direttamente la responsabilità di una propria iniziativa sociale, per ricostruire la coesione e la solidarietà in un paese che rischia di essere travolto da una competitività individuale e di gruppo senza regole e senza valori comuni.

In questo quadro, il nuovo partito terrà relazioni aperte, non diplomatiche, senza deleghe e senza collateralismi, con l’insieme delle rappresentanze sociali, con un impegno costante di confronto e di mediazione, ma secondo un proprio preciso indirizzo di politica sociale. La socialità, insomma, non è affidata alle relazioni esterne, ma deve stare nel cuore del suo programma. E questo richiede una pratica di concertazione, riconoscendo pienamente il ruolo e l’autonomia dei corpi sociali intermedi, a partire anzitutto da un confronto serrato con le grandi confederazioni sindacali che costituiscono oggi, pur con i loro limiti, la più diretta e unitaria espressione del mondo del lavoro.

Su questo trinomio (unità, partecipazione, solidarietà) si può tentare di costruire una nuova forza politica di massa, impiantata nella realtà sociale del paese. Ma occorre sapere che questo progetto implica una rottura con le attuali forme della politica, elitarie e verticistiche, che su tutti questi terreni occorrono novità percepibili, occorre un chiaro cambio di marcia e un gruppo dirigente che si immedesima con questa nuova sfida politica. Questi sono, a mio giudizio, i veri nodi da affrontare, dalla cui soluzione dipenderà l’esito finale dell’intero processo.

Vorrei infine rispondere alle due obiezioni che vengono correntemente sollevate: il rischio di un arretramento sulla laicità dello Stato, e il problema delle affiliazioni internazionali.

La laicità significa la costruzione di uno spazio pubblico comune, senza verità precostituite, nel quale sia sempre aperto e praticabile il confronto tra diversi modelli, tra i diversi valori che si incrociano nella nostra vita collettiva. Ora, un partito che è in se stesso pluralista, pluriculturale, garantisce più di altri questo spazio comune, perché dovrà fare del confronto la propria norma, e dovrà quindi trovare di volta in volta soluzioni politiche condivise , secondo un criterio di razionalità. In un grande partito democratico, lo spazio per i fondamentalismi e per i settarismi si riduce, e il tessuto connettivo non potrà che essere di carattere politico, oltre il particolarismo dei convincimenti individuali. La laicità dello Stato e della politica, quindi, non è in discussione, come non è in discussione il peso che ha nella nostra vita collettiva la dimensione religiosa, e la sua legittimazione a pronunciarsi nel dibattito democratico. Ciò che va combattuto è il cortocircuito tra fede e potere, il tentativo di schiacciare l’una sull’altro , l’idea cioè di puntellare la religione con la forza e di assolutizzare il potere in quanto detentore della verità. A questa riemersione del fondamentalismo un partito culturalmente aperto, che unisce laici e cattolici, appare naturalmente come una barriera, proprio per il fatto che esso è inclusivo e riconosce la legittimità dei diversi itinerari, dei diversi approcci alla verità.

Per quanto riguarda la collocazione internazionale, il problema davvero cruciale è quale ruolo viene proposto per l’Italia nell’Europa e nel mondo, e quale giudizio viene dato sui grandi nodi che sono aperti sulla scena mondiale. Da questo punto di vista, molte cose si sono già positivamente chiarite con l’avvio del nuovo governo e con la precisa impronta che Massimo D’Alema sta dando alla politica estera dell’Italia. E questo non dipende dall’appartenenza alle famiglie politiche europee, perché il conflitto passa all’interno di esse, e il nome “socialista” non garantisce nulla, come dimostra ad abundantiam l’esempio di Tony Blair o quello dei socialisti francesi che hanno fatto campagna per il No nel referendum per la Costituzione europea. È tutta la geografia politica dell’Europa che deve essere oggi verificata e rimessa in movimento, alla luce dei nuovi nodi strategici che ci stanno di fronte.

Un nuovo partito, che unisce i molteplici filoni del riformismo italiano, non entra in Europa per accodarsi a qualcuno, ma con l’ambizione di riaprire un confronto e di determinare una nuova dinamica nelle relazioni politiche, guardando anche oltre l’Europa, ai grandi sommovimenti che stanno cambiando la scena mondiale.

Se guardiamo alla nostra storia passata, vediamo come i partiti italiani hanno sempre avuto una loro autonomia e peculiarità, e non sono mai stati, nei loro momenti migliori, la succursale nazionale di una qualche centrale internazionale. In particolare, chi viene dal PCI dovrebbe sapere che è proprio l’autonomia nazionale ciò che ha reso possibile la sua straordinaria esperienza. Il problema delle affiliazioni internazionali dovrà essere affrontato, ma non è la premessa da cui partire, a meno che non si cerchi semplicemente un pretesto per rifiutare la discussione sul nuovo partito.

Ora, ciò che serve è una grande discussione di massa, aperta e plurale, che raccolga i più diversi contributi. Non c’è ancora un progetto definito a cui poter dire solo un sì o un no. C’è un lavoro da fare per rendere più forti e plausibili le ragioni di un progetto che cerca di dare una risposta alla crisi del paese.
A questa discussione non possiamo sottrarci.

venerdì 10 novembre 2006

Carlo Ghezzi

Il treno del Partito Democratico, dopo il recente convegno tenutosi ad Orvieto, si è avviato per dare vita ad una nuova forza politica. Ma si è avviato per dirigersi dove? La ricerca e la discussione sul suo carattere, sui suoi valori e sui suoi programmi, sulla sua funzione, sui suoi obbiettivi è ancor oggi quanto mai stentata. A tale esigenza si risponde, anche da parte di alcuni dei più decisi sostenitori del Partito Democratico, quasi con fastidio. Prevalgono il silenzio e l’indifferenza. Ma così rischiamo di non arrivare da nessuna parte.

La rissosità endemica interna al centro-sinistra ha a che fare non solo con rivalità e personalismi, ma con visioni e punti di vista diversi che non si confrontano mai esplicitamente fino in fondo. È necessario concentrare tutte le energie su un avanzamento progettuale, capace di sciogliere i nodi partendo dai comuni valori e confrontando idee, culture, tradizioni, per forgiare un progetto condiviso che costruisca l’identità di un soggetto politico per contribuire a governare il paese.
Se i nodi programmatico-valoriali non verranno sciolti la nuova forza politica rischia di nascere asfittica, peggio di come nacque negli anni sessanta il PSU. Il Partito Democratico rischia di nascere segnato da contraddizioni decisamente più dirompenti di quelle che gravarono irrisolte sulla pur coraggiosa scelta che Achille Occhetto operò per il partito che dirigeva dopo la caduta del muro di Berlino. I nodi vanno posti e affrontati con una discussione ampia, franca, scevra da reticenze. Vanno sottoposti al confronto con chi pensa a una nuova formazione politica, ma anche con chi avanza, a fronte di tale scelta, dubbi, contrarietà, dissenso.

Il centrosinistra ha vinto, seppur di misura, le elezioni e dall’aprile 2006 governa il Paese. Ha presentato una Legge Finanziaria segnata da un apprezzabile tasso di equità che, pur tra limiti e contraddizioni, realizza una consisten-te operazione di correzione dei conti pubblici lasciati disastrosamente in eredità da Berlusconi e da Tremonti. Si creano così le premesse per l’avvio di una stagione di riforme strutturali nel corso della quale si potranno misurare le capacità di innovazione del Governo guidato da Romano Prodi.

Tuttavia, non penso si possa sottacere quanto l’attuale assetto della po-litica italiana si presenti inadeguato: partiti deboli e fragili, con una asfittica vita democratica, in alcuni casi ridotti a meri comitati elettorali, incapaci di proporre al paese un progetto collocato in orizzonte verso il quale incamminarsi racco-gliendo pienamente le energie e le potenzialità presenti nella società italiana e che oggi non trovano i canali per entrare in un rapporto positivo con le organizzazioni di partito.
La crisi della politica che viviamo, la sua incapacità di condurre a sintesi un ampio arco di domande, rischia di spingere sia il ceto politico a rinchiudersi in una miope difesa di se medesimo, privo di legami solidi con la società, sia i diversi segmenti della realtà italiana a difendersi da soli, a tendere così ad una crescente corporativizzazione, accentuando i processi degenerativi della partecipazione e della qualità della nostra democrazia.
Serve una nuova politica, serve un nuovo soggetto politico. E’ matura, al tempo stesso urgente, l’esigenza di riorganizzare un ampio campo di forze, di costruire una nuova formazione politica progressista, dotata di un chiaro progetto riformatore, in grado di raccogliere le migliori esperienze riformatrici presenti nella società italiana. Lavorare per la costruzione di un partito nuovo im-plica in primo luogo indicarne i riferimenti valoriali e programmatici fondamenta-li, una idea di società, e attorno a questo nucleo di proposte, aprire una partecipata ricerca aperta e corale per dare risposte alle domande antiche e nuove che pongono il contesto nazionale e quello internazionale.

Un partito è utile se contribuisce a indicare delle prospettive, a trovare soluzioni ai grandi problemi dell’oggi, e in questo modo a fare la storia.

Se si vuole costruire una moderna forza politica progressista abbiamo bisogno di proporre un modello di società e una idea complessiva del paese entro cui articolare, con capacità di innovazione e finalità condivise, una visione unificante del futuro dell’Italia, una visione fondata sulla responsabilità sociale e sul rilancio dell’etica pubblica, abbiamo soprattutto bisogno di far avanzare un solido programma dotato di obiettivi e priorità. Insomma, una proposta valoriale e programmatica prima di tutto.
Il confronto oggi in atto tende a ignorare tali premesse e tende invece a interrogarsi in modo estenuante sul contenitore, sulla forma partito, sulle date dei prossimi congressi, sulle modalità con le quali scegliere i gruppi dirigenti del nuovo soggetto. Alcuni volonterosi (ma anche qui non ci siamo proprio) si avventurano in scorciatoie pragmatiche, caratterizzate dalla velleità di costruire una nuova famiglia di valori attingendo indifferentemente sia dalla tradizione di destra che da quella di sinistra, con una evidente subalternità al modello americano, assunto come riferimento per combattere la “sclerosi” europea, nella quale il valore sociale del lavoro rimane un riferimento decisivo.

Per dare sostanza, anima, identità al progetto di costruire un partito progressista penso si debba partire dal lavoro, dalla sua centralità, della sua dignità che attraversa e percorre le molteplici identità degli individui e dei cittadini del mondo contemporaneo, e che, negli interessi di parte, nelle percezioni collettive, nei simboli e nelle rappresentazioni, si tende a fare sparire, a ridurre, a relegare nell'inventario delle cose andate. E il lavoro è stato ad Orvieto il grande assente.

La modernità, o meglio l'innovazione, per una forza progressista è una sfida continua che si affronta sempre sulla base di un progetto. Tale progetto deve partire dal riconoscimento del valore del lavoro e delle sue soggettività concrete di uomini e donne, per darne riconoscibilità e rappresentanza politica compiuta. Il lavoro rimane uno dei fondamenti principali dell'identità delle persone e della cittadinanza. Il lavoro è il primo dei diritti sociali. La piena cittadinanza è legata al lavoro. Senza il lavoro siamo privati della nostra soggettività e della appartenenza alla comunità. Per poterla realizzare occorre rendere disponibili a tutti pari opportunità. Tutto ciò passa per la scelta di una via alta allo sviluppo, legata al perseguimento di obbiettivi di giustizia sociale e di coesione che non portino solo benessere alle persone, ma anche un valore competitivo alto, basato sulla innovazione, la ricerca, i saperi, qualificate infrastrutture materiali e immateriali. Nel lavoro, la teoria dei diritti a geometria variabile (che ritroviamo nella discussione sulla flessibilità in uscita, sui doppi regimi o sui differenziali retributivi per territori) così come la confusione tra flessibilità e precarietà, non hanno nulla a che fare con l'esigenza dì differenti modalità di esercizio dei diritti, rendono inefficace e senza sostanza ogni forma di tutela e conducono a un'idea di lavoro senza dignità e senza responsabilità.

Per una forza politica moderna, che vuole e deve rinnovarsi partendo dai valori antichi e sempre attuali di giustizia sociale e di emancipazione, di libertà e dì eguaglianza, il progetto presuppone una scelta esplicita: innovare difendendo e qualificando i diritti, includere coloro che vengono esclusi da uno sviluppo ineguale e senza regole; affermare la piena e buona occupazione, dare risposte ai nuovi e vecchi bisogni di donne e uomini; aiutare ciascuno nella propria autonomia, formazione, libertà di scelta. Ciò vale nel lavoro come nella vita. Se non si assume questo punto di vista, si finisce per avere come riferimento dì fondo i concetti di competizione e mercato intesi come fini e come tali sovraordinati rispetto ai diritti, alla dignità e alla libertà delle persone.

Non è questa una idea riduttiva o autosufficiente del lavoro nella forma di lavoro dipendente, non mi sfugge la crescita di attività individuali, la spinta di molti a farsi imprenditori, lo sviluppo dell'economia sociale e di quella cooperativa, delle professioni e del settore del no-profit.

Si tratta, da una parte, di rispondere alla crescente richiesta di libertà individuale, che si esprime sia nella sfera sociale sia in quella economica, e dall’altra alla domanda di protezione contro i rischi derivanti dalla globalizza-zione. Non possiamo individuare soluzioni credibili a questi problemi se non ridefiniamo i nostri valori ponendoli in chiara alternativa rispetto a quelli della destra.

Dobbiamo ispirare la nostra azione a valori e ideali. Va colta la straordinaria vitalità del tema dei diritti, cioè della eguaglianza e della libertà che devono diventare una vera e propria base morale del programma di azione politica. Libertà, eguaglianza, solidarietà, inclusione sociale sono fra loro connesse e interdipendenti: le forze di progresso rispetto alla destra debbono proporre una idea di libertà più ampia, che punti a rimuovere gli ostacoli al suo completo dispiegamento. La libertà individuale è anche “capacità” di esercitarla e l’eguaglianza delle opportunità non può far venir meno l’esigenza di un certo grado di eguaglianza dei risultati.

Eguaglianza e libertà debbono essere anche i valori della società civile globale. La promozione del dinamismo di mercato è indispensabile, ma ha bisogno di avere come finalità la giustizia, la pace, il benessere materiale e spirituale, cioè lo sviluppo umano. E’ per questo che va assunta la prospettiva dello sviluppo sostenibile e durevole. E’ per questo che va promosso un nuovo diritto mondiale fondato sulla centralità dei diritti umani.

Sul terreno del welfare e dello spazio delle politiche pubbliche emerge una singolare incertezza sul tipo di riformismo al quale si intende ancorare il Partito Democratico. Spesso sentiamo sostenere che il modello sociale europeo è in crisi. Certo, i sistemi di welfare vanno costantemente aggiornati, adeguati alle trasformazioni. Ma a un’analisi sgombra da pregiudizi il modello sociale europeo appare, più che in crisi, sotto attacco ideologico e politico. Non si tratta ovviamente di nasconderci gli aspetti problematici presenti nei welfare state europei, e dunque anche in quello italiano, quanto di avere consapevolezza della potenza con cui il verbo neoliberista, assai poco scalfito dai suoi pur significativi fallimenti (in termini di efficienza non meno che di equità) di questi ultimi anni, pretende di imporsi all’Europa.

Il modello europeo, con il compromesso che lo ha generato, ha saputo ampliare la coesione sociale, un sistema di regole condiviso, tutele e diritti individuali e collettivi, politiche inclusive, ha disegnato nel corso di lunghi decenni il profilo sociale dell’Europa, ne ha consolidato tratti di civiltà nel vivere quotidiano delle persone, ne ha costituito un fattore di competitività sugli scenari internazionali. Tale sistema di diritti e di tutele universale, solidale e inclusivo è divenuto uno dei capisaldi nella storia delle conquiste dell’umanità, riferimento fondamentale di un modello di sviluppo civilmente e socialmente avanzato che proponiamo a un mondo avviato verso una globalizzazione il cui segno definitivo è ancora incerto. Ritengo che il riconoscimento del valore del modello sociale europeo e del valore del lavoro costituiscano la cartina di tornasole e al tempo stesso il discrimine per valutare il tasso di progressismo presente in una forza politica.

Il nostro paese versa in una grave crisi economica e sociale. In breve: non riesce più a fare sistema. Per affrontare in modo positivo la sfida che l’economia italiana deve reggere nei mercati riteniamo urgente sollecitare un ruolo maggiore del mercato e al tempo stesso dello Stato indirizzando l’economia verso le scelte più coerenti per lo sviluppo, favorendo le forze produttive e contrastando le rendite, esprimendo un qualificato ruolo pubblico e non invece gestione pubblica.

La nostra società e la nostra economia abbisognano di maggior dinamismo, supportato da opportune tutele per le persone più esposte al rischio, così come di stimoli e di coordinamento da parte della mano pubblica. E’ necessario uno Stato capace di sostenere un mercato opportunamente regolamentato, affiancato da un welfare più efficace e più moderno, capace di tutelare e al tempo stesso di essere fattore positivo di sviluppo, un sistema in grado di affrontare le esigenze di cambiamento valorizzando le risorse umane.

Il nostro modello di sviluppo necessita di essere correlato a un sistema di relazioni industriali qualificato, sostenuto da imprese che si assumano un’effettiva responsabilità sociale, così come da sindacati capaci di costruire autonome strategie dotate di una visione compiuta della realtà socio-economia e del suo sviluppo. Un sistema capace di realizzare contrattazioni d’anticipo partecipate, in grado di conseguire la piena occupazione, la qualità del lavoro, un giusto equilibrio tra flessibilità e sicurezza, un aumento della competitività, una più equa distribuzione dei redditi e un adeguato sistema di sicurezza sociale.
Dopo gli anni del risanamento dei conti pubblici e l'ingresso nell'Euro, solo una grande ricollocazione qualitativa dei servizi e dei beni prodotti, della ricerca e della formazione, delle reti e delle infrastrutture, dello sviluppo e della diffusione dei saperi, può evitare al paese di scivolare lungo l'asse di un lento ma inarrestabile declino e al Mezzogiorno di restare permanentemente indietro.

Una forza politica porta avanti un progetto complessivo indica le direttrici di fondo, le regole, assicura trasparenze. E’ sbagliata e perdente la scelta di sfidare il capitalismo familiare italiano, uno dei maggiori responsabili delle difficoltà nelle quali versiamo, sul suo tradizionale terreno, utilizzando i suoi stessi strumenti che hanno condannato le nostre imprese al nanismo: imprenditori senza capitali propri da impegnare e da rischiare, ma abilissimi a costruire contorti sistemi di scatole cinesi, intrecci azionari, patti di sindacato per controllare aziende praticamente non scalabili, cariche di debiti in un rapporto insano banca-impresa, storicamente alla ricerca della protezione statuale, del protezionismo.

Nelle politiche sociali, è proprio l'allargamento delle insicurezze, la precarietà dei percorsi lavorativi e la prospettiva di società multiculturali sempre più aperte, nonché i processi di invecchiamento demografico, a richiedere un rinnovato e qualificato sistema di welfare, inteso come strumento di ridistribuzione, non solo materiale, di garanzia di cittadinanza attiva e di condizione di uno sviluppo basato sulla qualità sociale. La scelta opposta, la progressiva riduzione della sua universalità e la sua sostituzione con un sistema di protezioni individuali fondato sul principio assicurativo, si dimostra inefficace, più costosa e fortemente discriminatoria. Nel nome della libertà, questa scelta finisce per cancellare le libertà dei più. E in modo particolare quella dei giovani.

Riformismo e radicalità non possono essere termini separati. Se il riformismo si sgancia dalla necessaria critica alle società in cui viviamo e abbandona l'ambizione della radicalità delle trasformazioni, il riformismo diventa moderatismo. E la radicalità, se si separa dal dovere di indicare soluzioni concrete, praticabili e possibilmente maggioritarie, diventa utopia, sogno e, a volte, pura illusione. Solo così potremo avere la capacità di parlare e di essere ascoltata dai giovani che in questi anni si sono mobilitati per affermare che un altro mondo è possibile.

Le diseguaglianze tra i paesi ricchi e i paesi poveri, anziché diminuire, sono aumentate. Non è vero che la globalizzazione è in grado di correggere tali squilibri, il ventennio di politiche iperliberiste alle nostre spalle ha prodotto conseguenze pesanti. Il modello di sviluppo fondato sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali è giunto ad una soglia invalicabile e sta mettendo a rischio la stessa vivibilità del pianeta. All'interdipendenza del mondo in cui viviamo dovrebbero corrispondere organismi di governo globale sempre più efficaci. Il mondo non potrà reggere all'infinito alle sue ingiustizie, all'insostenibilità ambientale del suo sviluppo. Se i suoi squilibri non saranno sanati ci attende un destino fatto di migrazioni disperate, di guerre, di crescente insicurezza di fronte alla minaccia del fondamentalismo.

Sul terreno della politica internazionale è inaccettabile che il metodo democratico che governa i conflitti interni agli stati non venga applicato anche alle politiche di sicurezza e alla stabilità internazionale. L’uso della forza, anche quando si configura come ammissibile sulla base del diritto internazionale, è una tragedia, la sconfitta del metodo democratico. Il disastro prodotto dall'avventura irachena rappresenta il fallimento della visione del mondo propugnata dall'attuale presidenza americana che ha teorizzato l'esportazione della democrazia con la forza, ha calpestato le regole della legalità internazionale.
E' sulle grandi questioni del mondo di oggi che possiamo ritrovare il senso della nostra militanza. Con la fine delle ideologie del '900 le differenze tra progressisti e conservatori sono maggiori di quanto non fossero prima. Ci sono domande nuove. Servono nuove risposte. Serve una grande capacità di innovazione. Nessuna delle culture politiche del novecento, neanche quella che si richiama ai valori del socialismo dalla quale molti di noi provengono, a quelli del cattolicesimo democratico, così come alle culture laiche e ambientaliste, è in grado da sola di rispondere a tutti i cambiamenti con cui dobbiamo misurarci all'inizio del millennio.

Non ha nulla da dire il Partito Democratico al lavoro e alle rappresentanze sociali? Come obbliga questi soggetti, nella loro autonomia, a ripensarsi e a ripensare a un proprio rinnovato rapporto con la politica? E perché nessuno ne parla? Perché si temono divisioni profonde all’interno dell’Ulivo e si preferisce procedere nell’ambiguità.

Si acceleri dunque la discussione e la ricerca programmatico-valoriale, predisponendo sedi di confronto aperte oltre che alle forze politiche anche al mondo della cultura. Rivolgiamoci alle associazioni che sono altri importanti canali di partecipazione politica, al popolo delle primarie dell’Ulivo, senza trascurare l'impegno politico che si manifesta anche in forme diverse dai partiti tradizionali, in comitati di cittadini e in movimenti su singoli temi, ciò vale anche per coloro che oggi auspicano con convinzione una profonda riorganizzazione del campo delle forze riformatrici e che potrebbero giungere alla conclusione, che purtroppo non è affatto questa la forza politica di cui l’Italia ha davvero bisogno.

Lo si faccia per avviare da subito un ambito nel quale elaborare alcune fondamentali linee programmatiche e valoriali prioritarie con le quali presentarsi ai cittadini che decideranno di percorrere la nostra stessa strada, di riflettere insieme sul ruolo dell’Italia nell’Europa e nel mondo, sui nostri riferimenti internazionali, sul rapporto tra coesione sociale e innovazione, sul rinnovamento del sistema politico e istituzionale, sull’andamento demografico e il suo nesso con l’immigrazione e il welfare, sulla libertà dell’individuo e sulla problematica bioetica. Solo il confronto può fare chiarezza e dischiudere scenari credibili e nuovi.

giovedì 9 novembre 2006

Osvaldo Cammarota

Nell’occasione di confronto offerta da AeA Review sulla costruzione del Partito Democratico il dibattito si sposta, molto opportunamente, dal “perché” al “come”. Per ragionare meglio, è forse utile richiamare il “cosa” ha contribuito alla degenerazione della democrazia nel nostro paese, affinché tutti possano vigilare sul rischio di cambiamenti superficiali e inefficaci. Conosciamo già questi rischi, una pennellata di giovanilismo (quanto mai necessaria) e una montagna di buone intenzioni non servirebbero di per sé a produrre la profonda innovazione politico-culturale che il paese reclama da oltre un decennio.

Ripercorrendo le tappe evolutive (?) della cultura politica italiana, i meno giovani possono agevolmente ricordare le pratiche di “democrazia rappresentativa” che, seppure interpretata con il “manuale cancelli”, dava pur sempre voce e rappresentanza alle istanze di una società che ancora fondava i suoi caratteri nel conflitto capitale-lavoro.
Negli anni successivi abbiamo conosciuto la “democrazia consociativa”, la degenerazione di un’idea forte (il compromesso storico di Berlinguer) che non trovò le ragioni e il contesto adatto per una sua nobile evoluzione.
Successivamente siamo stati governati dal “decisionismo craxiano” che ha fortemente contribuito a ridurre il peso delle rappresentanze popolari a vantaggio di una cultura e una pratica politica fondata sulla contrattazione del potere.
Dopo una parentesi di “governi tecnici” della Banca d’Italia -che bene o male hanno evitato il peggio- abbiamo conosciuto il “leaderismo liberista” impersonato da Berlusconi. Ad esso la sinistra non è stata capace di opporre altro che modelli di “leaderismo dirigista” specularmene inefficaci e inadatti per governare democraticamente la società densa e complessa del nostro tempo.

È vero, oggi i leaderismi liberisti e dirigisti sono in crisi, ma qual è la cultura politica a cui si sono formate le classi dirigenti in questi anni? Sono convinto che questo è un pesante macigno sul percorso di costruzione di un Partito nuovo ed effettivamente Democratico.
Se osserviamo i comportamenti di persone a cui sono stati dati importanti ruoli politici e istituzionali (anche giovani, senza polemizzare né personalizzare), facciamo fatica a cogliere comportamenti innovativi. Non si possono negare gli sforzi, ma nemmeno si possono ignorare le malcelate reazioni di fastidio ad ogni tentativo di praticare cultura partecipativa nella formazione delle scelte politiche. Oggi è di moda l’ascolto del territorio e la pianificazione strategica, ma in quanti e quali luoghi si stanno coerentemente applicando queste nuove modalità?

Come cambiare, dunque, è strettamente connesso al cosa. Se l’ascolto continua ad essere svolto in maniera retorica, burocratica e inconcludente, se la gestione del potere si alimenta ancora del vizio di voler controllare le coscienze, se non si riuscirà a superare i limiti di cultura politica sedimentati negli ultimi trent’anni, … il Partito Democratico non sarà “nuovo”, sarà un ennesimo partito.

martedì 7 novembre 2006

Leonardo Impegno

Dopo un decennio di maturazione - si passa finalmente a discutere di come costituire il Partito Democratico.
A mio parere, bisogna discutere di questo alla luce di due fatti nuovi:
- una valutazione, che a questo punto può esser fatta, della prima fase del governo Prodi;
- l’evoluzione che sta maturando, a livello europeo, dove si comincia a discutere di un’aggregazione tra i democratici e i socialisti.

Primo punto: che cosa sta dimostrando il Governo Prodi? Di che cosa stiamo discutendo, e di che cosa sta discutendo il Paese, a 6 mesi dal varo del governo del centrosinistra, a parte, naturalmente, la demagogica inconcludenza della destra?
Stiamo discutendo dell’introduzione di elementi di innovazione e di riforma in un Paese che aveva rinunciato a correre. Certo, non indolori, e la discussione dell’estate sulle liberalizzazioni – a proposito, come si prosegue con il Decreto Bersani, dove il punto di vista è quello dei cittadini, consumatori, utenti? Subito dopo la Finanziaria, occorrerà aprire una stagione di riforme.
Si è dimostrato che non è né automatico né facile introdurre elementi di cambiamento in un sistema che, proprio nei mesi caldi, si è “dichiarato” incline alla chiusura corporativa e resistente all’apertura di nuovi scenari. Insomma, che il cambiamento necessario a far ripartire l’Italia è sostanzialmente lavoro di rinnovamento delle sue strutture portanti e, tra queste, innanzitutto la riforma elettorale attraverso un referendum che chiami gli italiani a “sbloccare” il sistema della rappresentanza oggi ad appannaggio dei partiti.
Se questo è il lavoro da fare, occorre che la politica se ne collochi all’altezza, dando concreta, immediata e compiuta realizzazione al progetto dell’Ulivo. Il Partito Democratico si deve collocare a questo snodo: un partito vero, a vocazione maggioritaria, che renda il centrosinistra capace di sostenere la sfida del bipolarismo, che riesce a scegliere, decidere, realizzare.
Per far questo, nella costruzione del PD non dobbiamo guardare ad una semplice somma dei protagonisti, pur importanti, quali sono i DS e la Margherita, ma recuperare la grande risorsa che per la democrazia di questo Paese sono state le primarie di Prodi. La somma di DS e Margherita non è un partito nuovo e, in quanto tale, non riuscirebbe ad intercettare quei giovani che non hanno una tradizione politica.
Questo anche per confutare un luogo comune: i giovani votano i partiti che esprimono posizioni radicali. Infatti, Rifondazione Comunista ha ottenuto minor consenso alla Camera rispetto al Senato dove era presente la lista Uniti per l’Ulivo.
Considero necessario che al nuovo partito non si aderisca solo “in quanto ex”. Alle primarie si è espressa una grande forza, una grande partecipazione di cittadini non iscritti ai partiti del centrosinistra e che aderirebbero solo ad un nuovo soggetto politico. Questa partecipazione esprime quella volontà di cambiamento e di evoluzione che è diventata ogni giorno più pressante e che si è manifestata alle Primarie. Non altro significa “una testa, un voto”: garantire la volontà di partecipazione che si è già espressa.
Secondo punto: in Europa matura una nuova possibilità, quella di vedere insieme i socialisti e i democratici nel Partito Socialista Europeo. Questo processo va sostenuto e aiutato innanzitutto sgomberando il campo da un equivoco: questo processo non serve ad agevolare la costituzione del PD in Italia, non è cioè una operazione strumentale a fini interni. Anzi, è la naturale evoluzione di un processo storico, quello che ha visto tramontate, alla fine del secolo scorso, le tradizionali culture politiche del ‘900.
Un processo che ha interessato l’Europa e anche noi, in Italia, dove l’idea di aggregare in un nuovo soggetto politico forte, il Partito Democratico, sensibilità, culture e storie diverse deve coniugarsi in una nuova soggettività politica riformista.
Leonardo Impegno
Presidente del Consiglio Comunale di Napoli

About come si cambia

Ragionare di valori e contenuti della politica. Di soggetti, di leader e di classi dirigenti. Di luoghi della decisione e della partecipazione democratica. Mentre abbiamo il futuro alle calcagne. Il partito democratico alle porte. La sinistra da ripensare.
Di tutto questo e di molto altro ancora si discuterà a Napoli, il 1 (dalle 18.00 alle 20.30) e il 2 (dalle 9.30 alle 13.00) dicembre a Napoli, in via Monteoliveto 5, nel corso del seminario organizzato da AeA Review.
Hanno finora assicurato il loro interesse ad ascoltare e proporre idee, opinioni, valutazioni sull'attuale fase politica Amico Antenucci, Osvaldo Cammarota, Ettore Combattente, Carlo Ghezzi, Teresa Granato, Marica Guiducci, Antonio Lamberti, Alberto Leiss, Sandra Macci, Maurizio Mascoli, Cinzia Massa, Giovanni Mininni, Vincenzo Moretti, Luigi Morra, Salvatore Napolitano, Carmine Piscopo, Luigi Santoro, Massimo Santoro, Gianfranco Savino, Pietro Simonetti, Rosario Strazzullo, Mario Tarallo, Riccardo Terzi
Buona partecipazione.