venerdì 10 novembre 2006

Carlo Ghezzi

Il treno del Partito Democratico, dopo il recente convegno tenutosi ad Orvieto, si è avviato per dare vita ad una nuova forza politica. Ma si è avviato per dirigersi dove? La ricerca e la discussione sul suo carattere, sui suoi valori e sui suoi programmi, sulla sua funzione, sui suoi obbiettivi è ancor oggi quanto mai stentata. A tale esigenza si risponde, anche da parte di alcuni dei più decisi sostenitori del Partito Democratico, quasi con fastidio. Prevalgono il silenzio e l’indifferenza. Ma così rischiamo di non arrivare da nessuna parte.

La rissosità endemica interna al centro-sinistra ha a che fare non solo con rivalità e personalismi, ma con visioni e punti di vista diversi che non si confrontano mai esplicitamente fino in fondo. È necessario concentrare tutte le energie su un avanzamento progettuale, capace di sciogliere i nodi partendo dai comuni valori e confrontando idee, culture, tradizioni, per forgiare un progetto condiviso che costruisca l’identità di un soggetto politico per contribuire a governare il paese.
Se i nodi programmatico-valoriali non verranno sciolti la nuova forza politica rischia di nascere asfittica, peggio di come nacque negli anni sessanta il PSU. Il Partito Democratico rischia di nascere segnato da contraddizioni decisamente più dirompenti di quelle che gravarono irrisolte sulla pur coraggiosa scelta che Achille Occhetto operò per il partito che dirigeva dopo la caduta del muro di Berlino. I nodi vanno posti e affrontati con una discussione ampia, franca, scevra da reticenze. Vanno sottoposti al confronto con chi pensa a una nuova formazione politica, ma anche con chi avanza, a fronte di tale scelta, dubbi, contrarietà, dissenso.

Il centrosinistra ha vinto, seppur di misura, le elezioni e dall’aprile 2006 governa il Paese. Ha presentato una Legge Finanziaria segnata da un apprezzabile tasso di equità che, pur tra limiti e contraddizioni, realizza una consisten-te operazione di correzione dei conti pubblici lasciati disastrosamente in eredità da Berlusconi e da Tremonti. Si creano così le premesse per l’avvio di una stagione di riforme strutturali nel corso della quale si potranno misurare le capacità di innovazione del Governo guidato da Romano Prodi.

Tuttavia, non penso si possa sottacere quanto l’attuale assetto della po-litica italiana si presenti inadeguato: partiti deboli e fragili, con una asfittica vita democratica, in alcuni casi ridotti a meri comitati elettorali, incapaci di proporre al paese un progetto collocato in orizzonte verso il quale incamminarsi racco-gliendo pienamente le energie e le potenzialità presenti nella società italiana e che oggi non trovano i canali per entrare in un rapporto positivo con le organizzazioni di partito.
La crisi della politica che viviamo, la sua incapacità di condurre a sintesi un ampio arco di domande, rischia di spingere sia il ceto politico a rinchiudersi in una miope difesa di se medesimo, privo di legami solidi con la società, sia i diversi segmenti della realtà italiana a difendersi da soli, a tendere così ad una crescente corporativizzazione, accentuando i processi degenerativi della partecipazione e della qualità della nostra democrazia.
Serve una nuova politica, serve un nuovo soggetto politico. E’ matura, al tempo stesso urgente, l’esigenza di riorganizzare un ampio campo di forze, di costruire una nuova formazione politica progressista, dotata di un chiaro progetto riformatore, in grado di raccogliere le migliori esperienze riformatrici presenti nella società italiana. Lavorare per la costruzione di un partito nuovo im-plica in primo luogo indicarne i riferimenti valoriali e programmatici fondamenta-li, una idea di società, e attorno a questo nucleo di proposte, aprire una partecipata ricerca aperta e corale per dare risposte alle domande antiche e nuove che pongono il contesto nazionale e quello internazionale.

Un partito è utile se contribuisce a indicare delle prospettive, a trovare soluzioni ai grandi problemi dell’oggi, e in questo modo a fare la storia.

Se si vuole costruire una moderna forza politica progressista abbiamo bisogno di proporre un modello di società e una idea complessiva del paese entro cui articolare, con capacità di innovazione e finalità condivise, una visione unificante del futuro dell’Italia, una visione fondata sulla responsabilità sociale e sul rilancio dell’etica pubblica, abbiamo soprattutto bisogno di far avanzare un solido programma dotato di obiettivi e priorità. Insomma, una proposta valoriale e programmatica prima di tutto.
Il confronto oggi in atto tende a ignorare tali premesse e tende invece a interrogarsi in modo estenuante sul contenitore, sulla forma partito, sulle date dei prossimi congressi, sulle modalità con le quali scegliere i gruppi dirigenti del nuovo soggetto. Alcuni volonterosi (ma anche qui non ci siamo proprio) si avventurano in scorciatoie pragmatiche, caratterizzate dalla velleità di costruire una nuova famiglia di valori attingendo indifferentemente sia dalla tradizione di destra che da quella di sinistra, con una evidente subalternità al modello americano, assunto come riferimento per combattere la “sclerosi” europea, nella quale il valore sociale del lavoro rimane un riferimento decisivo.

Per dare sostanza, anima, identità al progetto di costruire un partito progressista penso si debba partire dal lavoro, dalla sua centralità, della sua dignità che attraversa e percorre le molteplici identità degli individui e dei cittadini del mondo contemporaneo, e che, negli interessi di parte, nelle percezioni collettive, nei simboli e nelle rappresentazioni, si tende a fare sparire, a ridurre, a relegare nell'inventario delle cose andate. E il lavoro è stato ad Orvieto il grande assente.

La modernità, o meglio l'innovazione, per una forza progressista è una sfida continua che si affronta sempre sulla base di un progetto. Tale progetto deve partire dal riconoscimento del valore del lavoro e delle sue soggettività concrete di uomini e donne, per darne riconoscibilità e rappresentanza politica compiuta. Il lavoro rimane uno dei fondamenti principali dell'identità delle persone e della cittadinanza. Il lavoro è il primo dei diritti sociali. La piena cittadinanza è legata al lavoro. Senza il lavoro siamo privati della nostra soggettività e della appartenenza alla comunità. Per poterla realizzare occorre rendere disponibili a tutti pari opportunità. Tutto ciò passa per la scelta di una via alta allo sviluppo, legata al perseguimento di obbiettivi di giustizia sociale e di coesione che non portino solo benessere alle persone, ma anche un valore competitivo alto, basato sulla innovazione, la ricerca, i saperi, qualificate infrastrutture materiali e immateriali. Nel lavoro, la teoria dei diritti a geometria variabile (che ritroviamo nella discussione sulla flessibilità in uscita, sui doppi regimi o sui differenziali retributivi per territori) così come la confusione tra flessibilità e precarietà, non hanno nulla a che fare con l'esigenza dì differenti modalità di esercizio dei diritti, rendono inefficace e senza sostanza ogni forma di tutela e conducono a un'idea di lavoro senza dignità e senza responsabilità.

Per una forza politica moderna, che vuole e deve rinnovarsi partendo dai valori antichi e sempre attuali di giustizia sociale e di emancipazione, di libertà e dì eguaglianza, il progetto presuppone una scelta esplicita: innovare difendendo e qualificando i diritti, includere coloro che vengono esclusi da uno sviluppo ineguale e senza regole; affermare la piena e buona occupazione, dare risposte ai nuovi e vecchi bisogni di donne e uomini; aiutare ciascuno nella propria autonomia, formazione, libertà di scelta. Ciò vale nel lavoro come nella vita. Se non si assume questo punto di vista, si finisce per avere come riferimento dì fondo i concetti di competizione e mercato intesi come fini e come tali sovraordinati rispetto ai diritti, alla dignità e alla libertà delle persone.

Non è questa una idea riduttiva o autosufficiente del lavoro nella forma di lavoro dipendente, non mi sfugge la crescita di attività individuali, la spinta di molti a farsi imprenditori, lo sviluppo dell'economia sociale e di quella cooperativa, delle professioni e del settore del no-profit.

Si tratta, da una parte, di rispondere alla crescente richiesta di libertà individuale, che si esprime sia nella sfera sociale sia in quella economica, e dall’altra alla domanda di protezione contro i rischi derivanti dalla globalizza-zione. Non possiamo individuare soluzioni credibili a questi problemi se non ridefiniamo i nostri valori ponendoli in chiara alternativa rispetto a quelli della destra.

Dobbiamo ispirare la nostra azione a valori e ideali. Va colta la straordinaria vitalità del tema dei diritti, cioè della eguaglianza e della libertà che devono diventare una vera e propria base morale del programma di azione politica. Libertà, eguaglianza, solidarietà, inclusione sociale sono fra loro connesse e interdipendenti: le forze di progresso rispetto alla destra debbono proporre una idea di libertà più ampia, che punti a rimuovere gli ostacoli al suo completo dispiegamento. La libertà individuale è anche “capacità” di esercitarla e l’eguaglianza delle opportunità non può far venir meno l’esigenza di un certo grado di eguaglianza dei risultati.

Eguaglianza e libertà debbono essere anche i valori della società civile globale. La promozione del dinamismo di mercato è indispensabile, ma ha bisogno di avere come finalità la giustizia, la pace, il benessere materiale e spirituale, cioè lo sviluppo umano. E’ per questo che va assunta la prospettiva dello sviluppo sostenibile e durevole. E’ per questo che va promosso un nuovo diritto mondiale fondato sulla centralità dei diritti umani.

Sul terreno del welfare e dello spazio delle politiche pubbliche emerge una singolare incertezza sul tipo di riformismo al quale si intende ancorare il Partito Democratico. Spesso sentiamo sostenere che il modello sociale europeo è in crisi. Certo, i sistemi di welfare vanno costantemente aggiornati, adeguati alle trasformazioni. Ma a un’analisi sgombra da pregiudizi il modello sociale europeo appare, più che in crisi, sotto attacco ideologico e politico. Non si tratta ovviamente di nasconderci gli aspetti problematici presenti nei welfare state europei, e dunque anche in quello italiano, quanto di avere consapevolezza della potenza con cui il verbo neoliberista, assai poco scalfito dai suoi pur significativi fallimenti (in termini di efficienza non meno che di equità) di questi ultimi anni, pretende di imporsi all’Europa.

Il modello europeo, con il compromesso che lo ha generato, ha saputo ampliare la coesione sociale, un sistema di regole condiviso, tutele e diritti individuali e collettivi, politiche inclusive, ha disegnato nel corso di lunghi decenni il profilo sociale dell’Europa, ne ha consolidato tratti di civiltà nel vivere quotidiano delle persone, ne ha costituito un fattore di competitività sugli scenari internazionali. Tale sistema di diritti e di tutele universale, solidale e inclusivo è divenuto uno dei capisaldi nella storia delle conquiste dell’umanità, riferimento fondamentale di un modello di sviluppo civilmente e socialmente avanzato che proponiamo a un mondo avviato verso una globalizzazione il cui segno definitivo è ancora incerto. Ritengo che il riconoscimento del valore del modello sociale europeo e del valore del lavoro costituiscano la cartina di tornasole e al tempo stesso il discrimine per valutare il tasso di progressismo presente in una forza politica.

Il nostro paese versa in una grave crisi economica e sociale. In breve: non riesce più a fare sistema. Per affrontare in modo positivo la sfida che l’economia italiana deve reggere nei mercati riteniamo urgente sollecitare un ruolo maggiore del mercato e al tempo stesso dello Stato indirizzando l’economia verso le scelte più coerenti per lo sviluppo, favorendo le forze produttive e contrastando le rendite, esprimendo un qualificato ruolo pubblico e non invece gestione pubblica.

La nostra società e la nostra economia abbisognano di maggior dinamismo, supportato da opportune tutele per le persone più esposte al rischio, così come di stimoli e di coordinamento da parte della mano pubblica. E’ necessario uno Stato capace di sostenere un mercato opportunamente regolamentato, affiancato da un welfare più efficace e più moderno, capace di tutelare e al tempo stesso di essere fattore positivo di sviluppo, un sistema in grado di affrontare le esigenze di cambiamento valorizzando le risorse umane.

Il nostro modello di sviluppo necessita di essere correlato a un sistema di relazioni industriali qualificato, sostenuto da imprese che si assumano un’effettiva responsabilità sociale, così come da sindacati capaci di costruire autonome strategie dotate di una visione compiuta della realtà socio-economia e del suo sviluppo. Un sistema capace di realizzare contrattazioni d’anticipo partecipate, in grado di conseguire la piena occupazione, la qualità del lavoro, un giusto equilibrio tra flessibilità e sicurezza, un aumento della competitività, una più equa distribuzione dei redditi e un adeguato sistema di sicurezza sociale.
Dopo gli anni del risanamento dei conti pubblici e l'ingresso nell'Euro, solo una grande ricollocazione qualitativa dei servizi e dei beni prodotti, della ricerca e della formazione, delle reti e delle infrastrutture, dello sviluppo e della diffusione dei saperi, può evitare al paese di scivolare lungo l'asse di un lento ma inarrestabile declino e al Mezzogiorno di restare permanentemente indietro.

Una forza politica porta avanti un progetto complessivo indica le direttrici di fondo, le regole, assicura trasparenze. E’ sbagliata e perdente la scelta di sfidare il capitalismo familiare italiano, uno dei maggiori responsabili delle difficoltà nelle quali versiamo, sul suo tradizionale terreno, utilizzando i suoi stessi strumenti che hanno condannato le nostre imprese al nanismo: imprenditori senza capitali propri da impegnare e da rischiare, ma abilissimi a costruire contorti sistemi di scatole cinesi, intrecci azionari, patti di sindacato per controllare aziende praticamente non scalabili, cariche di debiti in un rapporto insano banca-impresa, storicamente alla ricerca della protezione statuale, del protezionismo.

Nelle politiche sociali, è proprio l'allargamento delle insicurezze, la precarietà dei percorsi lavorativi e la prospettiva di società multiculturali sempre più aperte, nonché i processi di invecchiamento demografico, a richiedere un rinnovato e qualificato sistema di welfare, inteso come strumento di ridistribuzione, non solo materiale, di garanzia di cittadinanza attiva e di condizione di uno sviluppo basato sulla qualità sociale. La scelta opposta, la progressiva riduzione della sua universalità e la sua sostituzione con un sistema di protezioni individuali fondato sul principio assicurativo, si dimostra inefficace, più costosa e fortemente discriminatoria. Nel nome della libertà, questa scelta finisce per cancellare le libertà dei più. E in modo particolare quella dei giovani.

Riformismo e radicalità non possono essere termini separati. Se il riformismo si sgancia dalla necessaria critica alle società in cui viviamo e abbandona l'ambizione della radicalità delle trasformazioni, il riformismo diventa moderatismo. E la radicalità, se si separa dal dovere di indicare soluzioni concrete, praticabili e possibilmente maggioritarie, diventa utopia, sogno e, a volte, pura illusione. Solo così potremo avere la capacità di parlare e di essere ascoltata dai giovani che in questi anni si sono mobilitati per affermare che un altro mondo è possibile.

Le diseguaglianze tra i paesi ricchi e i paesi poveri, anziché diminuire, sono aumentate. Non è vero che la globalizzazione è in grado di correggere tali squilibri, il ventennio di politiche iperliberiste alle nostre spalle ha prodotto conseguenze pesanti. Il modello di sviluppo fondato sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali è giunto ad una soglia invalicabile e sta mettendo a rischio la stessa vivibilità del pianeta. All'interdipendenza del mondo in cui viviamo dovrebbero corrispondere organismi di governo globale sempre più efficaci. Il mondo non potrà reggere all'infinito alle sue ingiustizie, all'insostenibilità ambientale del suo sviluppo. Se i suoi squilibri non saranno sanati ci attende un destino fatto di migrazioni disperate, di guerre, di crescente insicurezza di fronte alla minaccia del fondamentalismo.

Sul terreno della politica internazionale è inaccettabile che il metodo democratico che governa i conflitti interni agli stati non venga applicato anche alle politiche di sicurezza e alla stabilità internazionale. L’uso della forza, anche quando si configura come ammissibile sulla base del diritto internazionale, è una tragedia, la sconfitta del metodo democratico. Il disastro prodotto dall'avventura irachena rappresenta il fallimento della visione del mondo propugnata dall'attuale presidenza americana che ha teorizzato l'esportazione della democrazia con la forza, ha calpestato le regole della legalità internazionale.
E' sulle grandi questioni del mondo di oggi che possiamo ritrovare il senso della nostra militanza. Con la fine delle ideologie del '900 le differenze tra progressisti e conservatori sono maggiori di quanto non fossero prima. Ci sono domande nuove. Servono nuove risposte. Serve una grande capacità di innovazione. Nessuna delle culture politiche del novecento, neanche quella che si richiama ai valori del socialismo dalla quale molti di noi provengono, a quelli del cattolicesimo democratico, così come alle culture laiche e ambientaliste, è in grado da sola di rispondere a tutti i cambiamenti con cui dobbiamo misurarci all'inizio del millennio.

Non ha nulla da dire il Partito Democratico al lavoro e alle rappresentanze sociali? Come obbliga questi soggetti, nella loro autonomia, a ripensarsi e a ripensare a un proprio rinnovato rapporto con la politica? E perché nessuno ne parla? Perché si temono divisioni profonde all’interno dell’Ulivo e si preferisce procedere nell’ambiguità.

Si acceleri dunque la discussione e la ricerca programmatico-valoriale, predisponendo sedi di confronto aperte oltre che alle forze politiche anche al mondo della cultura. Rivolgiamoci alle associazioni che sono altri importanti canali di partecipazione politica, al popolo delle primarie dell’Ulivo, senza trascurare l'impegno politico che si manifesta anche in forme diverse dai partiti tradizionali, in comitati di cittadini e in movimenti su singoli temi, ciò vale anche per coloro che oggi auspicano con convinzione una profonda riorganizzazione del campo delle forze riformatrici e che potrebbero giungere alla conclusione, che purtroppo non è affatto questa la forza politica di cui l’Italia ha davvero bisogno.

Lo si faccia per avviare da subito un ambito nel quale elaborare alcune fondamentali linee programmatiche e valoriali prioritarie con le quali presentarsi ai cittadini che decideranno di percorrere la nostra stessa strada, di riflettere insieme sul ruolo dell’Italia nell’Europa e nel mondo, sui nostri riferimenti internazionali, sul rapporto tra coesione sociale e innovazione, sul rinnovamento del sistema politico e istituzionale, sull’andamento demografico e il suo nesso con l’immigrazione e il welfare, sulla libertà dell’individuo e sulla problematica bioetica. Solo il confronto può fare chiarezza e dischiudere scenari credibili e nuovi.

Nessun commento: